
In nome della Rosa
Questo articolo fa parte del numero 13 di Web Garden: in nome della Rosa
La rosa, il fiore di maggio, ci accompagna in un viaggio fra colori, storia, cultura e bellezza.
La prima declinazione latina già ne spiega le insidie. Semplice come una filastrocca – rosă, rosae, rosae; ingannevole come un trabocchetto: singolare o plurale, genitivo o dativo, nominativo o vocativo. Delle rosae è il contesto a dettare il significato, altrimenti chissà.
Così è la rosa, deliziosamente ambigua. Bianca d’innocenza e rossa di passione, rosa di amicizia e gialla di gelosia, ma anche di solarità. In nome della rosa si celano segreti: sub rosa dicta velata est, “ciò che è detto sotto la rosa è nascosto”, ed ecco perché sugli antichi confessionali si scolpivano rose, simbolo del vincolo sacro tra sacerdote e peccatore.
Dal silenzio delle chiese al fragore delle armi, in nome della rosa scorre il sangue della Storia. Marte, dio romano della guerra, nasce da una rosa. Ed è tra la rosa rossa dello stemma dei Lancaster e quella bianca degli York che, il 22 maggio di 567 anni fa, deflagra una delle più feroci lotte dinastiche dell’Inghilterra. Tre decenni di guerre, The Wars of the Roses; eserciti decimati, altezze reali assassinate. Alleanze, tradimenti, complotti.
Intanto, per Shakespeare, l’amore tra Romeo e Giulietta si consuma in nome della rosa, che «avrebbe lo stesso dolce profumo se fosse chiamata in qualsiasi altro modo». Per l’autrice settecentesca Barbot de Villeneuve la rosa è l’incantesimo malvagio che scandisce il tempo della Bestia: se non bacerà Belle prima che l’ultimo petalo tocchi terra, rimarrà animale per sempre (La Belle et la Bête).
Per Edmond Rostand il suo nome è il colore di un apostrofo, quello tra le parole “t’amo”(Cyrano de Bergerac). Per Lewis Carroll è l’ossessione sanguinaria della Regina di Cuori, che se per errore una rosa nasce bianca meglio tingerla subito di rosso, altrimenti “Tagliatele la testa!” (Alice nel Paese delle Meraviglie). La Regina capricciosa non sa che tingere i petali di una rosa è superfluo. Le 3.000 mila specie censite abbracciano l’intero spettro visibile all’occhio umano. La rosa accoglie tutti i colori del mondo, a eccezione del blu notte. La rosa blu non esiste in natura, nessuna varietà possiede il gene che ne produce il pigmento. E così è anche l’inafferrabile rosa nera, i cui petali sono in realtà di un viola scurissimo. Un inganno visivo.
Più antica dell’homo sapiens, che ha 300 mila anni o giù di lì, la rosa di anni ne ha 37 milioni e da sempre osserva gli umani dibattersi nelle proprie miserie, e li premia o li condanna secondo il significato con cui è evocata. Anna Peyron, ne Il romanzo della rosa (ADD Editore, 2020), chiama a testimoniare i fossili dell’Oligocene ritrovati in Oregon e Colorado. In un’epoca preistorica in cui il mare tocca il livello più basso nella storia della Terra, la rosa migra e si stabilisce lungo tutto l’emisfero settentrionale, per poi ricomparire milioni d’anni dopo nella mezzaluna fertile tra il Tigri e l’Eufrate. Gli antichi Egizi la coltivano; gli antichi Romani ci ornano le teste dei condottieri vittoriosi.

Nel Rinascimento dalla rosa nascono conserve, miele, sciroppi, profumi, olii essenziali. Poi la coltivazione si dirada. È Giuseppina Bonaparte, la discussa nobildonna che dalla Martinica francese sposa Napoleone e diventa imperatrice, a riportarla con prepotenza in Europa, nel suo ambizioso giardino di Malmaison, a Rueil, otto chilometri da Parigi. Ingorda di varietà esotiche come lo è di piaceri mondani, rilancia – come farebbe oggi un luxury brand – una passione botanica che dilaga nel mondo.
Da quel 1799 i petali bianchi accompagnano la trepidazione della sposa; quelli rossi le acrobazie erotiche degli amanti, per poi scivolare dalle lenzuola nella vasca profumata della donna vanitosa. La celebrano artisti, poeti, musicisti. Versi sublimi e rime banali, perché la rosa è democratica e trasversale. Simone Cristicchi vince Sanremo 2007 con una rosa, metafora della prigionìa nei manicomi (Ti regalerò una rosa). Luigi Tenco, 40 anni esatti prima, a Sanremo si suicida come «atto di protesta contro un pubblico che manda Io, tu e le rose in finale». Nella prigione di Alcatraz, baia di San Francisco, dal 1869 la rosa è il solo svago per i detenuti militari, che la coltivano con perseveranza. Dal 1933 il compito passa ai prigionieri civili, e se il carcere chiude il 21 marzo 1963, oggi resta la Terrazza delle Rose: strappata alla roccia un centimetro dopo l’altro, visitata ogni anno da migliaia di persone.
Negli anni Ottanta, nella Milano-da-bere, alle escort si chiede “quante rose vuoi”? Ogni rosa, centomila lire. Visione profana, devozione sacra: i grani del rosario (rosārium, lett.“rosaio”), che nel XIII secolo sostituiscono le ghirlande di rose per rendere omaggio alla Vergine; la sensualità del tango, con la rosa tra i denti del ballerino che passa nella bocca della sua donna – si spera senza spine.

Imprevedibile e multiforme, la rosa può avere 5 petali o arrivare a 60. Vale 3 milioni di dollari, se è l’ibrido creato da David Austin in 15 anni di dedizione. Oppure pochi centesimi, se è quella appoggiata dal ragazzino indiano sul tavolo di un ristorante – recisa e congelata dall’altra parte del mondo; effimera promessa d’innamoramento, o più facilmente di una notte soltanto: che se poi sono rose, alla fine fioriranno.
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