Le Ghirlande degli Dei: è questo il titolo di una piccola e deliziosa opera dell’autrice americana Mary Taylor Simeti, illustrata dagli acquerelli di Susan Pettee ed edito dalla Palermo University Press, che racconta il fiorire delle erbe spontanee all’ombra degli antichi templi greci in Sicilia e la loro capacità, con l’alternarsi delle stagioni, di mutare il paesaggio dei grandi siti archeologici, patrimonio sublime di questa meravigliosa isola baciata dal sole.
Newyorkese, nata da una famiglia di intellettuali – il padre Francis Henry Taylor era stato direttore del Metropolitan Museum of Art – Mary Taylor Simeri si trasferisce in Sicilia per quello che avrebbe dovuto essere un breve periodo, ma se ne innamora e non l’abbandona più.
Affascinata dalla sua mitologia, dai colori così forti e diversi rispetto alle sue radici di acciaio e vetro, dai suoi odori, dai sapori, è oggi considerata la Grand Dame dell’arte culinaria sicula. Ha pubblicato numerosi volumi, tra cui il più noto, Mandorle Amare: un viaggio a ritroso tra ricordi e ricette in collaborazione con Maria Grammatico, erede della più antica pasticceria di Erice. Scrive inoltre assiduamente per il New York Times e il Financial Times.
Accomunate dal medesimo interesse per l’archeologia e la botanica, Mary Taylor Simeti e Susan Pettee hanno ripercorso, in un viaggio di studi pluriennale che rimanda allo spirito e alla fascinazione del Gran Tour, i siti più importanti del territorio, fra cui Segesta, Selinunte, Morgantina, Agrigento e Siracusa, per individuare quei fiori e quelle erbe spontanee che lì crescono, quasi a cingere i templi come le ghirlande che venivano deposte sul capo degli dei, e che oggi hanno il compito di “alleviare la pena delle rovine con la loro gentilezza”.
Nella sezione Beinecke dedicata ai codici rari, al numero d’inventario MS 408, la Biblioteca dell’Università di Yale custodisce «il libro più misterioso del mondo». Nessuno è ancora riuscito a decifrarlo, e a Yale i sapienti non mancano. Il Manoscritto Voynich – questo il suo nome – è il testo più celebre e oscuro di Botanica Fantastica, ma non l’unico.
Redatto su pergamena di vitello tra il 1404 e il 1438, ha acceso la fantasia di scrittori, filologi e complottisti, ed è stato protagonista in un episodio del fumetto italiano Martin Mystère (1982). Nessuna ipotesi o trama, però, ha mai sciolto l’enigma dei 113 disegni di piante sconosciute illustrate a colori nel codice, né delle loro descrizioni, annotate in un idioma che non appartiene ad alcun sistema alfabetico a oggi classificato. Ci sono radici e infiorescenze che, s’ipotizza, fossero materia ghiotta per gli alchimisti – mestiere molto in voga nel Medioevo – ma dove crescessero e a cosa servissero, chissà.
Come non bastassero le 60.065 specie di piante reali censite dalla Botanic Gardens and Plant Conservation, o le 391mila varietà calcolate nel mondo dai ricercatori britannici dei Royal Botanic Gardens, la tradizione delle piante immaginarie, mai catalogate in un vero erbario, è antica e corposa.
Nel 1330, nella relazione di un viaggio in Oriente, frate Odorico da Pordenone descrive una pianta che, al posto del fiore, genera un agnello. L’animale se ne sta lì, in punta allo stelo come uno stilita sulla colonna, attaccato a un cordone ombelicale flessibile che gli permette di chinare il muso a terra e nutrirsi d’erba. Si chiama Barometz e si trova già in Erodoto (442 a.C.), Theophrastus (306 a.C.) e Plinio il Vecchio (77 d.C), mentre nel Talmud compare con il nome di Jeduah. Pochi anni dopo, lo scrittore-viaggiatore John Mandeville ne conferma l’esistenza (1355) e se ne nutre con gusto perché «la carne sa di pesce e il sangue di miele».
L’Agnello vegetale di Tartaria – dal nome arcaico della regione dell’Asia dove se ne attestava la presenza – diventa così famoso che chiunque passi tra il Mar Caspio e gli Urali ne incontra uno: il diplomatico austriaco Sigismund von Herberstein (1549), il cartografo francese Guillaume Postel (1552), lo scienziato napoletano Giambattista Della Porta (1591), il poeta ugonotto Guillaume de Salluste Du Bartas (1578).
La cultura occidentale risponde per le rime. Non sia mai che solo l’Oriente produca meraviglie. Nel 1188, l’ecclesiastico gallese Giraldus Cambrensis s’imbatte in un albero, tipico delle coste irlandesi, da cui germogliano anatre. Pochi anni dopo, le Bernacae o Anatre Vegetali d’Irlanda vengono descritte anche dal frate domenicano Vincent de Beauvais. Il mondo religioso è deliziato. Le Bernacae iniziano a spuntare ovunque: in quanto vegetali, si possono mangiare anche in Quaresima. Dirime la questione papa Innocenzo III, che nel 1215 stabilisce l’astinenza da ogni tipo di carne, di qualunque origine. E così sia. Ma le leggende sono dure a morire. Nel 1605 il botanico francese Claude Duret pubblica a Parigi la sua Histoire admirable des plantes et des herbes, classificando specie di alberi che partoriscono animali: le foglie caduche che toccano l’acqua diventano pesci; quelle che finiscono al suolo, uccelli marini.
La Botanica Fantastica sopravvive ai secoli e ai negazionisti. Nel 1981 l’artista romano Luigi Serafini pubblica il Codex Seraphinianus, composto – come il Manoscritto Voynich – in una lingua inventata. Per Italo Calvino è «l’enciclopedia di un visionario»: benché figlio di un agronomo e di una botanica, lo scrittore italiano è niente affatto scandalizzato dall’improbabile flora disegnata nel libro, né dalle piante con nomi indecifrabili e forme che sfidano il buonsenso della fisica.
Gli fa eco, nel 1976, il pittore statunitense Leo Lionni, che pubblica per Adelphi La botanica parallela, con 23 illustrazioni e 32 tavole fuori testo che descrivono piante fantastiche con il rigore di un trattato scientifico. Un esercizio di fantasia che riscopre l’appetitosa carne medievale del Barometz, garantita vegetale al 100 per cento.
Trasformista, cangiante, appariscente, carismatico, ma sempre elegante, raffinato, armonioso, rilassante.
Parliamo dell’Acer palmatum ‘Dissectum’, una serie di varietà di acero giapponese, a lenta crescita (infatti spesso cresce come un arbusto!), caratterizzato da un portamento pendulo, con una forma della chioma ombrelliforme, e per la morfologia delle foglie molto ornamentali: con lobi stretti, frastagliate, più sottili e piccole rispetto gli altri Aceri, che virano dal rosso in autunno, al verde lucente in estate, passando per l’arancione.
In base alle varietà o cultivar di ‘Dissectum’ avremo degli effetti cromatici differenti: il ‘Dissectum green lace’, per esempio si presenta giallo-oro in autunno e verde smeraldo in estate; mentre il ‘Dissectum Crimson princess’ assume una colorazione rosso cupo nel periodo autunnale.
In primavera, inoltre, spuntano delle piccole infiorescenze colore ruggine che, maturando, diventano i caratteristici semi con piccole ali che provocano sempre stupore quando, staccati dal vento, planano, allontandandosi dalla Madre, verso il terreno con un movimento elicoidale.
Con l’arrivo del freddo, essendo il fogliame deciduo, si potrebbe pensare che diminuisca il valore ornamentale, e invece esso è in grado di accappararsi lo stesso il ruolo di protagonista nel nostro giardino per via dei meravigliosi intrecci che creano i rami tra di loro.
Apparentemente delicato, esso è in realtà una pianta piuttosto robusta e rustica, resistente al freddo (sebbene soffra i picchi di gelo), generalmente fino a -15°C.
Necessita però di alcuni accorgimenti: ha bisogno di terreni acidi e con un buon drenaggio, perché sebbene voglia molta acqua, non tollera i ristagni. Inoltre è opportuno riparare gli aceri giapponesi dal sole cocente estivo e dare una leggera spuntatina ai rami in autunno: permetterà di ridare forma e ordine alla chioma.
Infine non si può parlare dell’acero giapponese senza parlare della cultura giapponese! Infatti, sebbene di origine asiatica, esso è particolarmente diffuso in Giappone, dove, insieme ai Pini e ai Ciliegi da fiore, è essenziale per la creazione dei tipici paesaggi e giardini nipponici: le immagini degli aceri nei parchi dei templi giapponesi sono infatti iconiche in tutto il mondo.
L’acero è ritenuto simbolo di pace e armonia, per questo viene anche chiamato “kito” (“calma” o riposo”), segno di come esso abbia un significato spirituale, tanto che ogni autunno l’evento momiji- gari (”Caccia all’albero di acero”) spinge moltissimi giapponesi in pellegrinaggio sulle montagne per vedere gli aceri nel loro pieno splendore.
Consiglio perciò al lettore di prendere spunto da questo rito, perchè, che ci si creda o no, ammirare da vicino, di persona, un bel esemplare di acero giapponese, è un toccasana per la mente ed il corpo!
Niccolò Machiavelli intitolò così una sua commedia, capolavoro del teatro del Cinquecento e un classico della drammaturgia italiana: “Mandragola”.
Il titolo deriva dal genere di piante (Mandragora) appartenenti alla famiglia delle Solanaceae, di cui le radici, nella commedia, vengono utilizzate per creare, apparentemente, una pozione afrodisiaca e fecondativa…
Infatti alcune caratteristiche delle mandragole hanno dato modo di fomentare numerosissime credenze popolari nei loro confronti, che sono poi sfociate nella cultura pop. Innanzitutto la radice di questa pianta è caratterizzata da una peculiare biforcazione che ne dà una forma antropomorfa, da bambino; da qui la leggenda del pianto della mandragola, in grado addirittura di uccidere un uomo. Capacità, quella di urlare, riportata anche, guarda caso, in Harry Potter, quando durante una lezione di erbologia i maghetti, protetti da cuffie, devono rinvasare le “piante”.
Oltre all’antropomorfismo, esse sono altamente tossiche: in esse sono presenti alcaloidi tropanicim, sostanze attive che hanno effetti sulla frequenza cardiaca e sul sistema nervoso centrale, causando sintomi come stordimento, mal di testa o nausea.
Tutto ciò ha contribuito a far attribuire in antichità alla mandragola poteri magici. Le Solanaceae, di cui la mandragola fa parte, sono una famiglia di angiosperme che comprende molte specie utilizzate, tra le altre cose, come ortaggi, tra cui le patate, le melanzane, i pomodori, i peperoni, e i peperoncini.
Oltre a ciò esse possono anche essere facilmente confondibili con alcuni ortaggi. Le foglie della Mandragola hanno forma ovato-oblunga, corrugata e sono disposte a formare una rosetta basale, proprio come gli spinaci o le lattughe.
Non sono rarissimi infatti i casi di avvelenamento verificatisi in seguito all’ingestione di foglie di mandragora, erroneamente scambiate per foglie di altre specie commestibili. In autunno spuntano una manciata di fiori violacei, imbutiformi, lunghi 3–4 cm e suddivisi in 5 lobi, mentre il frutto è una bacca di circa 3cm color arancione.
È diffusa soprattutto nell’area mediterranea meridionale, dal Portogallo alla Grecia, dalla Sardegna al Nord Africa e al Medio Oriente, prediligendo i terreni calcarei soleggiati.
Ho ritenuto importante descrivervi la pianta nel dettaglio perché ci troviamo di fronte ad un classico esempio in cui l’apparenza inganna.
Le fiabe, mondi incantati che si rifanno a profondissimi archetipi della vita e della morte, che racchiudono tutte le esperienze umane di cui i piccoli lettori devono imparare a fare tesoro e la moltitudine di paure che attraverso la magia del racconto saranno chiamati ad esorcizzare, si sono da sempre servite della natura come elemento simbolico e narrativo.
Si pensi per esempio al bosco, la fitta selva in cui molti dei personaggi più noti ed amati dei racconti dell’infanzia, da Biancaneve, a Cappuccetto Rosso e Pollicino per citarne solo alcuni, si perdono e all’interno del quale devono ritrovare la via che li porti alla salvezza. Un luogo scuro, minaccioso, sconosciuto, spesso paragonato all’inconscio che richiede di essere sondato, un terreno ignoto nel quale bisogna immergersi per conoscere sé stessi e fare i conti con i propri timori, ma anche dove l’eroe scopre di avere le risorse per emergere e poter tornare alla luce mutato, cresciuto, più forte e consapevole.
Piante generatrici e distruttrici, piante che sono strumento e che sono esse stesse personaggi: la letteratura è ricchissima di spunti in questo senso e Web Garden qui ve ne propone alcuni. Una delle fiabe più dolci, che rimanda a quei vecchi libri di un tempo dalle illustrazioni magnifiche, è “I Fiori della Piccola Ida” di Hans Christian Andersen.
La bambina osserva con rammarico il suo mazzolino di fiori appassire, ed uno studente le spiega che i fiori, dall’aria così stanca, sono esausti per aver danzato tutta la notte in un sontuoso ballo a corte. Nottetempo la piccola si sveglia e va a spiare i suoi fiori, che trova ancora una volta intenti a danzare al cospetto del re e della regina, delle bellissime rose, ed il giorno dopo, sapendo che i suoi fiori hanno vissuto intensamente, può lasciarli andare con serenità, ormai del tutto spenti. È una delle favole meno note del celebre autore, ma di grandissima poesia.
La rosa è uno dei personaggi chiave del “Piccolo Principe” di Antoine de Saint-Exupéry, una favola che affronta con estrema delicatezza tutti i grandi temi dell’esistenza: amore, amicizia, distacco. Simbolo dell’amore romantico, il piccolo eroe si dedica al fiore, immagine della donna, dispensandogli cure, attenzioni, dedicandogli il suo tempo con abnegazione.
Ed è così che impara ad amare, perché comprende che sono i gesti che le ha donato, a rendere quella rosa la sua rosa, sono ciò che fanno si che sia unica e specialissima in una moltitudine di rose che altrimenti si assomiglierebbero tutte: “Gli uomini coltivano cinquemila rose nello stesso giardino… e non trovano quello che cercano… e tuttavia quello che cercano potrebbe essere trovato in una sola rosa o in un po’ d’acqua”, comprende. Ed è ancora una rosa il simbolo dell’amore che va trovato oltre l’apparenza, come ci viene narrato ne “La Bella e la Bestia”, un amore che se non viene compreso nella sua sostanza più profonda appassisce e muore.
E’ una pianta dispensatrice di vita e di morte quasi da Antico Testamento il cespuglio del terribile racconto “Il Ginepro” dei fratelli Grimm. Caratterizzati da risvolti estremamente cruenti, i racconti di questi autori tedeschi hanno terrorizzato i bambini di molteplici generazioni. È il ginepro a donare la maternità ad una sposa infertile, regalandole un bambino bianco come la neve e rosso come il sangue, ed è ancora il ginepro a vendicarne la dipartita – avvenuta nei modi più abominevoli – tramite un maestoso e variopinto uccello generato dal magico cespuglio che ne canterà le vicende e ne punirà, naturalmente con la morte, l’assassina.
Moltissime sono le fiabe in cui gli elementi della natura sono magici strumenti che concorrono ad aiutare o a mettere in difficoltà il protagonista. Cenerentola non avrebbe mai potuto raggiungere il ballo se non fosse stato per la zucca trasformata in carrozza, e come avrebbe fatto Alice, nel suo Paese delle Meraviglie, a mutare di dimensione senza i suoi funghi magici?
Jack vive le avventure più strabilianti grazie ad una manciata di fagioli dai poteri straordinari e sono le casacche di ortiche, lavorate nel dolore, che restituiscono ai principi le loro originali sembianze ne “I Cigni Selvatici”, ancora una volta di Andersen.
Si dice che la nostra vita terrena abbia avuto inizio con il morso dato al frutto di un albero diverso da tutti gli altri alberi, e da allora la profonda simbologia della natura non ha mai abbandonato l’uomo e la sua interpretazione del mondo che lo circonda.
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