
Ugo Alciati: la tradizione piemontese ha il colore delle viole
Questo articolo fa parte del numero 12 di Web Garden: il Sapore dei Fiori.
I colori dei fiori della primavera giungono ad allietare il nostro sguardo, ma possono regalarci anche grandi delizie del palato.
Quando, a metà di una chiacchierata informale, Ugo Alciati dichiara di essere uno chef “molto garden”, è subito chiaro che il suo posto è qui e ora: qui, nel Magazine di Web Garden dedicato ai sapori, e ora, con quest’intervista “a metri 10” «perché da noi il chilometro zero è un concetto superato».
«L’orto dove coltiviamo erbe, verdure e fiori è, sì e no, a dieci metri dalla cucina» spiega nel suo “guidoristorante” di Fontanafredda (Cuneo). «Nella serra, all’interno dell’orto, pianto e raccolgo personalmente viole e margherite, ma anche le carote, le cui foglioline sono ottime in insalata e belle per la decorazione dei piatti».
Ugo Alciati è la terza generazione di chef stellati, in una storia di ristorazione familiare lunga 60 anni: prima con la nonna Pierina, poi con la mamma Lidia. La prima Stella Michelin arriva 50 anni fa, nel 1972, al ristorante Guido di Costigliole (Asti), gestito dai genitori «ma con mia nonna che ancora trafficava in cucina». Da allora, questa (buona) Stella è sempre rimasta in famiglia. Anzi, è raddoppiata. «Ne abbiamo una per ristorante» dice. «Qui a Fontanafredda, dove lavoro con mio fratello maggiore Piero; l’altra al “Guido da Costigliole” di Santo Stefano Belbo (Cuneo), che si trova all’interno del “Relaix San Maurizio” e di cui si occupa mio fratello minore Andrea». Lo chef di casa, però, è lui e soltanto lui: Ugo. Che a nove anni «già pasticciavo in cucina, montando il bianco dell’uovo per le meringhe».
Web Garden: Partiamo dai fiori. Quando sono entrati in menu?
Ugo Alciati: All’inizio degli anni Duemila, quando c’è stato un cambio di rotta nella ristorazione. I clienti iniziavano a chiedere maggiore impatto visivo. Così abbiamo iniziato a ingentilire i piatti, dandoci però la regola che ogni ingrediente fosse commestibile. Niente aghi di pino, pigne o eccentricità immangiabili.
E l’orto “a metri 10”?
Nasce a Fontanafredda nel 2011. Fin dagli inizi, quando ancora nessuno ne parlava, la nostra è stata una cucina “a chilometro zero”. Abbiamo sempre dato spazio e appoggio a piccoli produttori e allevatori della zona. È vero che per il cardo gobbo di Nizza Monferrato percorro 60 km, ma solo per andare a prendere personalmente una verdura straordinaria.
Come direbbe il proverbiale Avvocato del Diavolo: ci fornisca le prove.
Abbiamo creato una Comunità del Cibo. Chi aderisce deve essere consapevole e sottoscrivere i nostri standard. Niente plastica, niente pesticidi e un’agricoltura che va ben oltre il biologico, fattore che consideriamo scontato. Guardiamo oltre. Vogliamo essere sempre più green e lavoriamo soltanto con aziende ecosostenibili, alimentate a energie alternative. Abbiamo stilato un piccolo “manifesto” per essere certi che tutti i nostri produttori e allevatori comprendano e recepiscano il messaggio che vogliamo dare.

Nel suo orto a Fontanafredda coltiva anche germogli. Quali? E come li utilizza?
«I germogli sono la nostra ciliegina sulla torta: infatti li usiamo per decorare e definire i piatti, sempre nel rispetto della commestibilità e in base alla stagionalità. Ci sono i germogli di piselli, che raccolgo quando sono alti 4 o 5 centimetri, quindi giovanissimi. E poi quelli di broccolo, di bietola, di acetosella, di erba medica…».
Erba medica perché mangiare è una medicina?
«Una medicina no. Però, oltre che buono, il cibo dev’essere salutare».
Anche i fiori sono usati come decorazione?
«Non soltanto. Le viole, per esempio, le briniamo con lo zucchero: sembrano piccole caramelle e i clienti ne vanno ghiotti».
Altri esempi?
«Naturalmente ci sono i fiori di zucchina in pastello: un classico, ma sempre “fiori” si chiamano. Nelle insalate mettiamo il Dianthus (comunemente il garofano, ndr) e l’Antirrhinum (che conosciamo come bocca di leone, ndr). Il primo ha un’ampia gamma di colori, anche se io uso i bianchi e i gialli; del secondo scelgo cromie che vanno dal giallo, al rosa, al rossiccio. Tra le viole prediligo quelle arancioni e quelle viola, naturalmente: hanno il sapore più consistente. Inoltre, ci sono i fiori della borraggine di color blu violetto, quelli azzurrini del rosmarino e i fiorellini della santoreggia, bianchi o leggermente rosati. Sono rotondi e molto piccoli, sembrano pallini».
Ci tolga il timore che nei suoi “Guido” si faccia dieta severa: sua nonna e sua mamma erano legate alla tradizione piemontese. E lei?
«Assolutamente sì, e il legame con il territorio è sempre più forte, di anno in anno. Non che per noi sia una novità, ma vogliamo raccontarlo sempre di più e meglio».
Che cos’è l’uovo bianco di Alessandro Varesio?
«Un esempio virtuoso della Comunità del Cibo di cui parlavo. Alessandro Varesio ci fornisce sia l’uovo sia la gallina, nella fattispecie il pollo. Com’è chiaro dal menu, siamo molto rigorosi nell’utilizzo degli ingredienti del territorio».

Fassona piemontese, capretto di Langa, riso carnaroli, finanziera. E i famosi “plin al tovagliolo” inventati da sua mamma? Ci sono ancora?
«Mai mancati, nemmeno un giorno. In realtà non posso dire che li abbia inventati lei, però sì: li ha fortemente innovati e modificati a nostra immagine e somiglianza. Abbiamo sempre cercato di dare la nostra impronta alla tradizione più classica. Finanziera, vitello tonnato, peperoni ripieni, agnolotti, cardo gobbo con fonduta. Di questi piatti abbiamo fatto anche versioni più moderne, con ingredienti del Piemonte assemblati diversamente. Per esempio, l’antipasto cardi-pere-acciughe che serviamo dall’ultima settimana di settembre a fine gennaio, dipende dal tempo e dal clima».
E il suo piatto del cuore, quello che mangia senza stancarsene mai?
«Il vitello tonnato. Sarà banale, ma è anche il motivo per cui lo riproponiamo da 60 anni e tutti continuano a chiedercelo. Adoro anche la cipolla ripiena: una cipolla bianca svuotata, riempita di cipolla e salsiccia, e infine arrostita in forno. Sono sapori legati a ricordi di famiglia, perché l’affettività è un ingrediente fondamentale. I ricordi sono una parte essenziale del cibo. L’altro giorno un cliente ha mangiato la finanziera e aveva le lacrime. “Mi ricorda mia nonna”, ha detto».
Come per le Madeleine di Proust?
«Forse, ma io non faccio letteratura. Io lavoro in cucina. La mia parte cerco di farla lì».





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