Quando Stella e Marco Boglione decidono di mettere su famiglia è l’inizio del nuovo millennio, «il 1999 o giù di lì ». Il loro desiderio è una casa nel verde, magari sulla collina torinese, ma niente da fare. BasicNet, il gruppo industriale che Marco Boglione ha fondato appena quattro anni prima, ha bisogno del suo capitano. Il lavoro chiama.
Meglio vivere nella Foresteria sopra gli uffici e trasformare il tetto in un giardino. Stella, un pollice che più verde non si può e una tenacia da kamikaze (anche se è di origine cinese), realizza un primo orto urbano. In Italia non è ancora diffusa la moda green e, in Svezia, Greta porta ancora il pannolone. In tempi non sospetti, quando l’agricoltura domestica non è mainstream, Stella è una pioniera. Alle sei di mattina è avvistata sul roof garden con tuta e stivali di gomma (a marchio Superga, ça va…) a sradicare erbacce e piantare sementi.
Con l’orto arriva il pollaio, perché per Marco Boglione «il vero lusso è un uovo fresco al cucchiaio ogni mattina», e con il pollaio generazioni di pulcini che diventano galline e covano altre uova. Nel 2018 le prime tre arnie, e quindi il miele, dopo gli esperimenti con gli insetti antagonisti – che Stella utilizza su piante, fiori e verdure per evitare qualunque forma di guerra chimica ai parassiti – e una curiosa battaglia domestica per la «liberazione dei bonsai», trasformati in piante di notevoli dimensioni dentro vasi altrettanto imponenti.
Poi, la svolta: i Boglione acquistano l’isola sarda di Culuccia e Stella inizia ad amministrare l’omonima azienda agricola. La passione si trasforma in impresa, «anche se – assicura lei – più che imprenditrice sono una lavoratrice agricola. Per la maggior parte del tempo faccio la contadina. Non delego: amo tutto ciò che mi permette di stare in contatto con la natura, anche se devo alzarmi all’alba. D’altronde, la terra si bagna prima del sorgere del sole, oppure dopo il tramonto».
Mentre la intervisto al cellulare sulla sua lovestory con le api, lei attacca il viva-voce «perché sto pulendo 50 chili di bacche di ginepro con cui facciamo il gin». Nell’azienda agricola Culuccia, oltre al miele millefiori e a quello di melata, si producono ostriche, spumante Metodo Champenois e Vermentino Docg, e anche il più tradizionale tra i liquori sardi: il Mirto Bastianino, «dal nome del nostro primo asinello, che è un po’ la mascotte dell’isola».
Nell’azienda azienda agricola Culuccia, Stella Boglione produce miele millefiori, miele di melata, gin, mirto, vermentino Docg, spumante Metodo Champenois e ostriche
Nel resto della giornata a Stella non mancano altri impegni, compresa la parte burocratica di questo lavoro, «un aspetto che detesto, anche se capisco sia necessario».
Intanto sull’isola di Culuccia, nota anche come Isola delle Vacche (che peraltro stanno ritornando, selvatiche, ricominciando a riprodursi dopo anni di estinzione, ndr), è nato un Osservatorio naturalistico e un piano di turismo ecosostenibile che va consolidandosi di stagione in stagione, perché «il progetto Culuccia è creare prodotti di altissima qualità nel rispetto della Natura, oltre a rivalorizzare quest’isola dal punto di vista agricolo e turistico».
Non è raro, d’estate, vedere Stella Boglione dietro il bancone del bar Macchiamala, sull’omonima spiaggia, nei panni di cuoca-cameriera-barista. Anche se il suo più evidente successo è un vermentino che nasce – letteralmente – dal mare.
Racconta Stella: «Dal 1923 al 1996 l’unico abitante dell’isola di Culuccia fu Angelo Sanna, conosciuto come “Zio Agnuleddu”, che venne a viverci dopo aver lasciato l’ufficio postale di Santa Teresa di Gallura. Solo come un eremita, senza acqua corrente né elettricità, con l’unica compagnia di un cane e una cavalla, allevava maiali, capretti e mucche».
Negli anni Cinquanta, “Zio Agnuleddu” piantò la Vigna della Puntata (sulla punta dell’isola, ndr) con vitigni autoctoni galluresi «che abbiamo ripreso tre anni fa». Nella prima vendemmia, il 1° settembre dell’anno scorso, sono stati raccolti poco più di 2mila chili «600 dei quali sono stati messi a riposare in mare, come facevano gli Antichi Greci». Poco dopo, con l’enologo Andrea Pala (Miglior Giovane Enologo italiano 2021, ndr) Stella ha prodotto il vermentino Donna Ma’, dal nome della figlia Maria, che ha già vinto diversi premi. E, contemporaneamente, il Donna Ste’, che ha subito meritato il Docg.
Questo è accaduto, in poco più di 20 anni, alla donna che da ragazza organizzava eventi per l’Ambrosetti, che da bambina «volevo fare l’agente segreto come Nikita» e che «se tornassi indietro forse farei Medicina». Tutto attraverso un processo «molto lento e inatteso, per quanto piacevole», perché «una delle fortune più grandi è trasformare una passione nel lavoro della vita».
BASTIANINO L’asino Bastianino, mascotte dell’isola sarda di Culuccia, che dà il nome al mirto prodotto da Stella Boglione
La lovestory tra Stella Boglione e le api inizia su un tetto: l’ex lastrico solare di una storica azienda tessile torinese – il MCT, fondato nel 1916 – che oggi è il quartier generale di BasicNet, gruppo industriale quotato in Borsa e proprietario dei marchi Kappa, Robe di Kappa, Jesus Jeans, K-Way, Superga, Briko e Sebago.
In questa ex fabbrica che oggi si chiama BasicVillage, dove abita assieme al marito Marco, fondatore del Gruppo, nell’aprile 2018 arrivano tre arnie urbane, «i miei primi passi da apicultrice». Poche rispetto alle 140 che si trovano sull’isola sarda di Culuccia, acquistata dai Boglione nel 2017 e sede dell’omonima azienda agricola di cui Stella è amministratore.
Perché tre arnie?
«Tre è il numero minimo consigliabile con cui iniziare l’avventura delle api, perché l’apicultore può intervenire aiutando l’eventuale arnia più debole con quella più forte. Se in un’arnia, ad esempio, viene a mancare la regina, si possono prendere le covate dalle arnie più robuste che aiutano la sopravvivenza di quella più fragile».
Come nasce la sua passione per le api?
«Intanto va detto che – ironia della sorte – io ho paura delle api, come di qualunque altro insetto che abbia un volo irregolare e non prevedibile, anche se è una paura infondata: le api sono creature docili e pungono solo se minacciate. È iniziata per sfida. Lo stesso meccanismo che mi spinge a percorrere un ponte tibetano nonostante io soffra di vertigini».
Tra tante sfide, perché proprio le api?
«Un amico di mio marito, che abita in collina, quando è andato in pensione ha iniziato a lavorare con le api. Ogni volta che veniva a trovarci mi portava un barattolo di miele. Così, un giorno, ho pensato: quasi quasi…».
Ho letto che l’alveare è un super-organismo. Approfondiamo?
«Un super-organismo è un miracolo di intelligenza che, misteriosamente, è privo di “testa”. È una “civiltà” senza coscienza e ragione: solo puro, millenario istinto. Pur essendo composto da numerosi individui, opera come un organismo unico. Ciascuno, fin dalla nascita, sa esattamente che cosa fare e lo fa con precisione millimetrica. Ognuno ha un compito definito, nulla è lasciato al caso, perché le api sono insetti “eusociali”: se fossero essere umani, potremmo dire che hanno più a cuore il bene comune di quello individuale. Sono un meccanismo perfetto che si muove come un tutt’uno».
Che cosa insegna l’universo delle api?
«A lavorare duro. Osservando un alveare si comprende il senso dell’organizzazione, il sacrificio del singolo per la collettività, la meticolosità e la dedizione nello svolgere il proprio compito. S’impara a non essere pressapochisti, perché dal ruolo di ciascuno dipende la sorte dell’intero alveare. Queste cose le api le sanno senza che nessuno gliele insegni: è un imprinting antichissimo. Nel loro aspetto attuale, esistono sulla Terra da 4 milioni di anni».
Le 140 arnie posizionate da Stella Boglione sull’isola sarda di Culuccia
Com’è la sua vita da apicultrice?
«Il mondo delle api è per me una magia. Mi capita di rimanere incantata a osservare le bottinatrici, capaci di “visitare” fino a 2mila fiori al giorno. Oppure a emozionarmi per la nascita di una nuova operaia. Ho ancora i brividi al ricordo della prima volta in cui sono riuscita a distinguere, in mezzo al ronzio dell’alveare, il canto della regina vergine».
Passando ad argomenti più prosaici, quanto miele produce ogni anno?
«A Torino, 30 chili per arnia. In Sardegna, dove la stagione è più breve e siccitosa, si arriva a 10 chili. Va però detto che io faccio apicultura stanziale: non rincorro le fioriture spostando le arnie. Con il nomadismo si produce molto più miele».
Di che qualità parliamo?
«Ogni anno è una scommessa: tutto dipende dalle temperature e dalle piogge. A Torino, l’anno scorso l’apiario urbano non aveva prodotto l’acacia perché le forti piogge ne avevano rovinato la fioritura. Quest’anno, invece, lo stesso apiario ha prodotto l’acacia e anche un ottimo millefiori con punta di tiglio. L’apiario sardo, l’anno scorso ha prodotto ad aprile un millefiori con punta di lavanda, a metà stagione un millefiori con punta di cardo e, alla fine, la melata. Quest’anno a Culuccia, vista la grande siccità, la melata è arrivata prima».
I profani pensano che la melata c’entri con le mele: invece si tratta di un miele particolare, raffinatissimo, che oltre a essere delizioso ha anche proprietà antisettiche, antibatteriche e rafforza memoria e concentrazione. Ci racconta?
«La melata è una sostanza zuccherina secreta da piccoli insetti che si nutrono della linfa degli alberi. Dalla linfa, gli insetti eliminano l’acqua e gli zuccheri in eccesso, dando vita a un nutrimento ricco di sali minerali. Una volta raccolta questa sostanza preziosa, le api la introducono nell’alveare e la trasformano in miele».
Oltre al miele, che cos’altro è prodotto nelle arnie?
«Cera, naturalmente. E poi polline, propoli e la pappa reale, che però io non faccio ancora».
È vero che è la pappa reale a trasformare un’ape in regina?
«Le api sono di due tipi: o maschio o femmina. Il maschio, il cosiddetto fuco, nasce da un uovo non fecondato; l’ape operaia da un uovo fecondato. La differenza tra l’ape operaia e la regina è il nutrimento, che nella cella reale è la pappa reale, mentre nelle altre celle è un “cibo” meno nutriente. Quando le uova sono depositate nelle celle, le ceraiole le chiudono con un velo di cera. Poi la larva si sviluppa e, rompendo l’opercolo, sfarfalla l’ape».
Che cosa consiglia un giovane che vuole diventare apicultore?
«Dedizione, pazienza e tanto spirito di sacrificio, come del resto per qualunque altro mestiere».
Chiudiamo con un giochino alla Proust: se fosse un’ape, quale ape sarebbe?
«Un’operaia. Benché abbia una vita brevissima, tra le 4 e le 6 settimane, ricopre ogni ruolo. Quando nasce fa la pulitrice per due giorni, poi passa ad altre mansioni: nutrice, cortigiana, ceraiola, immagazzinatrice, guardiana, ventilatrice. Infine diventa bottinatrice. Una vita breve e faticosa, però intensa».
Le prime tre arnie di Stella Boglione sul roof garden del Basic Village di Torino
Regina no?
«Nonostante il mito della regina, e il fatto che viva più a lungo, per me è una schiava del sistema: se non svolge correttamente il proprio compito, quel super-organismo che è l’alveare la elimina e la sostituisce. Entro i primi 20 giorni di vita deve fare il volo nuziale, durante il quale si accoppia con un discreto numero di fuchi. Trattiene il seme all’interno di un organo raccoglitore, la spermateca, quindi va di cella in cella a deporre le uova, scegliendo se fecondarle o no secondo la grandezza delle celle».
E il fuco?
«Serve solo a fecondare la regina, non ha nemmeno il pungiglione. Muore subito dopo l’accoppiamento e, se non riesce nel suo compito, torna nell’arnia e ci resta per il resto della stagione. Infine, vivo o morto, viene buttato fuori».
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