Tra le 20mila specie di api che ronzano sulla Terra, la più diffusa si è formata sopravvivendo alle glaciazioni. Si chiama Apis mellifera ligustica, meglio conosciuta come “ape italiana”: quella che vediamo in primavera e in estate mentre passa di fiore in fiore per catturare nettare e polline. Nonostante questa immagine bucolica di petali, pistilli e prati colorati, alle api il caldo piace pochissimo. Lo sanno bene gli apicoltori, che in estate spostano le arnie in zone riparate dal sole, mentre le api ventilatrici si danno un gran daffare sbattendo freneticamente le ali – due paia ciascuna – per rinfrescare l’alveare.
A differenza di quanto credono i più, le api italiane stanno benissimo nelle regioni fredde e nelle zone montane. In inverno, quando le arnie sono coperte di neve, gli alveari respirano perché la neve è permeabile: all’interno non si forma un eccesso di anidride carbonica né di umidità. Basta che le famiglie siano forti e abbiano una scorta sufficiente di mieli e sciroppi.
Un vecchio manuale americano (L’ape e l’arnia; 1921) mostrava immagini di un esperimento estremo: famiglie di api sopravvissute in piena salute a un inverno in cui le temperature erano arrivate a -30 gradi e il vento a 27 chilometri l’ora. E, nel suo Bee Behavior (1980), il celebre apicoltore statunitense Stephen Taber (1924-2008) spiegava le tecniche di conduzione degli alveari dalla Svezia al Canada, garantendo la possibilità di fare apicoltura produttiva anche dove il clima è freddo e la stagione del raccolto breve.
All’inizio degli Anni Duemila, l’apicoltore finlandese Pekka Tuomanen riusciva a produrre in soli 2 mesi tra gli 80 e i 100 kg per alveare. Un record di maestria: e tutto con l’ape italiana.
Benché nell’ultima grande glaciazione le pianure non esistessero, spesso chi vive di apicoltura preferisce le regioni pianeggianti. È una condizione climatica che allontana l’Apis mellifera ligustica dal suo habitat naturale, ignorandone la millenaria memoria generica. Come direbbe Nanni Moretti, «continuiamo così, facciamoci del male»: perché – scrive Gabriele Milli nel visitatissimo blog apicolturaonline.it – andando avanti con questo sistema «si impoverisce irrimediabilmente l’Apis mellifera ligustica di una caratteristiche fondamentale: la sua estrema adattabilità».
Slow Food, che di biodiversità ne capisce, nel 2012 ha avviato il Presidio dell’ape nativa della Sierra Norte di Puebla (Messico). Qui, a un’altitudine media di 1.825 metri, vive una razza speciale di ape senza pungiglione, che gli indigeni chiamano Pisilnekmej (nome scientifico: Scaptotrigona Mexicana), allevata in arnie composte da due vasi di terracotta da cui si ricava un miele speziato e piccante al naso, con note di agrumi in bocca, usato come alimento o come medicinale.
Più vicino a noi, se Germania e Austria hanno una lunga tradizione di mieli di montagna, l’Italia non è da meno. Gli apiari in quota sono numerosi sugli Appennini del Centro-Nord (700-1.000 metri), sulle Prealpi Lombarde, dove si produce un ottimo miele d’acacia (già di per sé piuttosto redditizio), in Trentino e in Alto Adige, dove il miele è superlativo: quello sudtirolese di Imkerei Hieslerhof, ad Avelengo (tra i 1.290 e i 1.600 metri in provincia di Bolzano), nel 2016 è stato premiato con l’oro dall’Associazione apicoltori.
Tra i migliori prodotti italiani, selezionati dal 1981 dall’Osservatorio Nazionale Miele attraverso il Concorso Tre Gocce d’Oro, ci sono il Millefiori di Alta Montagna delle Alpi (vallata dolomitica) e il Miele di rododendro, prodotto in Piemonte nei pascoli di alta montagna. Certo, occorre duro lavoro. Lo stesso svolto delle api bottinatrici, che ronzano nei prati dall’alba al tramonto: appena tre secondi per ogni fiore e poi via, subito a impollinarne altro e a prelevarne il nettare dal fondo del calice – il nettario – arrivando a visitare 2mila corolle al giorno. E ricominciare daccapo la mattina dopo.
Il miele, delizioso cibo d’oro, è amato e conosciuto sin dai tempi antichissimi. I primi ad allevare le api furono gli egizi, lungo il delta del Nilo. Per i greci era il cibo degli dei: nella loro mitologia era Melissa, la figlia del re di Creta, a nutrire Zeus di questo nettare prezioso. I romani ne sfruttavano le proprietà terapeutiche e lo utilizzavano per la preparazione di birre, dolci ed idromele (una bevanda data dalla fermentazione del miele diluito in acqua).
È però sotto Carlo Magno, nel Medioevo, che l’apicoltura si struttura realmente. Un editto del 759d.C. imponeva a chiunque possedesse un podere di allevare le api per il miele e l’idromele, e conventi ed abbazie divennero importanti centri di apicultura.
Ma questo fluido meraviglioso è apprezzato in tutto il mondo da millenni, e se ne trova di ogni genere, dal semplice vasetto al supermercato fino a varietà pregiatissime. Il miele più costoso del mondo, per esempio, viene da una caverna profonda 1.800 metri nella valle del Saricayr, nel nord est della Turchia. Scoperto solo nel 2009 dall’apicoltore turco Gunay Gunduz, il miele Elvish (o miele degli Elfi) è stato venduto per la prima volta all’asta per 45.000 euro al kilo.
Gunduz aveva notato che alcune delle sue api erano sparite all’interno di una caverna. Dopo aver organizzato una vera e propria spedizione, l’apicoltore si è calato all’interno dell’antro per scoprire con sua grande sorpresa che nelle sue più remote profondità le api avevano colonizzato un’enorme camera dove il miele era invecchiato al buio per oltre sette anni. La sua particolarità è che non vi sono alveari, ma viene prodotto direttamente lungo le pareti rocciose ed in totale assenza di luce. Esposto a basse temperature, questo miele si cristallizza e richiede quindi un’attenta lavorazione una volta riportato in superficie. Il suo costo esorbitante è dovuto ad una combinazione di fattori che include la raccolta quanto meno impervia della materia prima, la sua complessa lavorazione, il sapore del tutto unico dato dalle sue condizioni e l’indiscutibile fascino che ammanta le sue origini. Il secondo kilo è stato venduto più a buon mercato: ha raggiunto solo i 28.800 Euro!
A small stream in the Rakiura National Park with Manuka trees and clouds reflected in the water.
In Nepal invece esiste un miele selvatico, le cui proprietà psicotrope gli hanno conferito il nome di “Mad Honey”. Definito come un miele allucinogeno, i suoi effetti spaziano da quelli della forte ubriacatura da alcool fino a quelli di un’overdose e derivano dalla graianotossina, una tossina presente nelle piante di rododendro da cui proviene ed è prodotto dalle api himalayane, le più grandi al mondo. La raccolta del Mad Honey è estremamente complessa e pericolosa, poiché gli alveari si trovano su declivi che richiedono le abilità di scalatori espertissimi per essere raggiunti, anche con l’ausilio di scale di bambù alte fino a centinaia di metri.
Una volta guadagnati gli alveari, i raccoglitori usano del fumo per fugare le api, che spesso si fanno aggressive ed i malcapitati non riescono ad impedire di rientrare alla base con decine di punture. Una volta compiuta l’impresa, il prezioso bottino è suddiviso fra i vari villaggi e deve compiere una lunga strada prima di arrivare alla commercializzazione, dove raggiunge il ragguardevole costo di circa 150 Euro al kilo. Nel 2016 il fotografo e documentarista David Caprara ha realizzato il film “The Honey Hunters of Nepal” ed ha sperimentato su di sé gli effetti di questo nettare decisamente inebriante. Questo miele è utilizzato da millenni all’interno della medicina tradizionale nepalese, come antisettico e come rimedio per la tosse. La tribù autoctona Kulung lo utilizza anche durante i riti di natura sciamanica, per favorire sogni e visioni.
Molto più conosciuto ed accessibile è il miele di Manuka. La pianta da cui proviene, è un sempreverde che cresce in Australia e Nuova Zelanda, ricca di metilgliossale: un principio attivo ben noto nella tradizione Maori per le sue proprietà antisettiche, antibatteriche, antiossidanti, cicatrizzanti ed antibiotiche tanto forti da essere efficaci anche contro il pernicioso stafilococco aureo. I suoi benefici sono talmente potenti che questo miele può essere sia ingerito che utilizzato per preparare impacchi cutanei disinfettanti. È efficace anche per la cura dei bruciori di stomaco, del reflusso gastroesofageo e di tutte le malattie da raffreddamento, come anche l’influenza, poiché aiuta ad aumentare le difese immunitarie.
A differenza dei primi due, questo piccolo nettare miracoloso è facilmente reperibile e si può acquistare a prezzi assolutamente più modici.
Quando Stella e Marco Boglione decidono di mettere su famiglia è l’inizio del nuovo millennio, «il 1999 o giù di lì ». Il loro desiderio è una casa nel verde, magari sulla collina torinese, ma niente da fare. BasicNet, il gruppo industriale che Marco Boglione ha fondato appena quattro anni prima, ha bisogno del suo capitano. Il lavoro chiama.
Meglio vivere nella Foresteria sopra gli uffici e trasformare il tetto in un giardino. Stella, un pollice che più verde non si può e una tenacia da kamikaze (anche se è di origine cinese), realizza un primo orto urbano. In Italia non è ancora diffusa la moda green e, in Svezia, Greta porta ancora il pannolone. In tempi non sospetti, quando l’agricoltura domestica non è mainstream, Stella è una pioniera. Alle sei di mattina è avvistata sul roof garden con tuta e stivali di gomma (a marchio Superga, ça va…) a sradicare erbacce e piantare sementi.
Con l’orto arriva il pollaio, perché per Marco Boglione «il vero lusso è un uovo fresco al cucchiaio ogni mattina», e con il pollaio generazioni di pulcini che diventano galline e covano altre uova. Nel 2018 le prime tre arnie, e quindi il miele, dopo gli esperimenti con gli insetti antagonisti – che Stella utilizza su piante, fiori e verdure per evitare qualunque forma di guerra chimica ai parassiti – e una curiosa battaglia domestica per la «liberazione dei bonsai», trasformati in piante di notevoli dimensioni dentro vasi altrettanto imponenti.
Poi, la svolta: i Boglione acquistano l’isola sarda di Culuccia e Stella inizia ad amministrare l’omonima azienda agricola. La passione si trasforma in impresa, «anche se – assicura lei – più che imprenditrice sono una lavoratrice agricola. Per la maggior parte del tempo faccio la contadina. Non delego: amo tutto ciò che mi permette di stare in contatto con la natura, anche se devo alzarmi all’alba. D’altronde, la terra si bagna prima del sorgere del sole, oppure dopo il tramonto».
Mentre la intervisto al cellulare sulla sua lovestory con le api, lei attacca il viva-voce «perché sto pulendo 50 chili di bacche di ginepro con cui facciamo il gin». Nell’azienda agricola Culuccia, oltre al miele millefiori e a quello di melata, si producono ostriche, spumante Metodo Champenois e Vermentino Docg, e anche il più tradizionale tra i liquori sardi: il Mirto Bastianino, «dal nome del nostro primo asinello, che è un po’ la mascotte dell’isola».
Nell’azienda azienda agricola Culuccia, Stella Boglione produce miele millefiori, miele di melata, gin, mirto, vermentino Docg, spumante Metodo Champenois e ostriche
Nel resto della giornata a Stella non mancano altri impegni, compresa la parte burocratica di questo lavoro, «un aspetto che detesto, anche se capisco sia necessario».
Intanto sull’isola di Culuccia, nota anche come Isola delle Vacche (che peraltro stanno ritornando, selvatiche, ricominciando a riprodursi dopo anni di estinzione, ndr), è nato un Osservatorio naturalistico e un piano di turismo ecosostenibile che va consolidandosi di stagione in stagione, perché «il progetto Culuccia è creare prodotti di altissima qualità nel rispetto della Natura, oltre a rivalorizzare quest’isola dal punto di vista agricolo e turistico».
Non è raro, d’estate, vedere Stella Boglione dietro il bancone del bar Macchiamala, sull’omonima spiaggia, nei panni di cuoca-cameriera-barista. Anche se il suo più evidente successo è un vermentino che nasce – letteralmente – dal mare.
Racconta Stella: «Dal 1923 al 1996 l’unico abitante dell’isola di Culuccia fu Angelo Sanna, conosciuto come “Zio Agnuleddu”, che venne a viverci dopo aver lasciato l’ufficio postale di Santa Teresa di Gallura. Solo come un eremita, senza acqua corrente né elettricità, con l’unica compagnia di un cane e una cavalla, allevava maiali, capretti e mucche».
Negli anni Cinquanta, “Zio Agnuleddu” piantò la Vigna della Puntata (sulla punta dell’isola, ndr) con vitigni autoctoni galluresi «che abbiamo ripreso tre anni fa». Nella prima vendemmia, il 1° settembre dell’anno scorso, sono stati raccolti poco più di 2mila chili «600 dei quali sono stati messi a riposare in mare, come facevano gli Antichi Greci». Poco dopo, con l’enologo Andrea Pala (Miglior Giovane Enologo italiano 2021, ndr) Stella ha prodotto il vermentino Donna Ma’, dal nome della figlia Maria, che ha già vinto diversi premi. E, contemporaneamente, il Donna Ste’, che ha subito meritato il Docg.
Questo è accaduto, in poco più di 20 anni, alla donna che da ragazza organizzava eventi per l’Ambrosetti, che da bambina «volevo fare l’agente segreto come Nikita» e che «se tornassi indietro forse farei Medicina». Tutto attraverso un processo «molto lento e inatteso, per quanto piacevole», perché «una delle fortune più grandi è trasformare una passione nel lavoro della vita».
BASTIANINO L’asino Bastianino, mascotte dell’isola sarda di Culuccia, che dà il nome al mirto prodotto da Stella Boglione
La lovestory tra Stella Boglione e le api inizia su un tetto: l’ex lastrico solare di una storica azienda tessile torinese – il MCT, fondato nel 1916 – che oggi è il quartier generale di BasicNet, gruppo industriale quotato in Borsa e proprietario dei marchi Kappa, Robe di Kappa, Jesus Jeans, K-Way, Superga, Briko e Sebago.
In questa ex fabbrica che oggi si chiama BasicVillage, dove abita assieme al marito Marco, fondatore del Gruppo, nell’aprile 2018 arrivano tre arnie urbane, «i miei primi passi da apicultrice». Poche rispetto alle 140 che si trovano sull’isola sarda di Culuccia, acquistata dai Boglione nel 2017 e sede dell’omonima azienda agricola di cui Stella è amministratore.
Perché tre arnie?
«Tre è il numero minimo consigliabile con cui iniziare l’avventura delle api, perché l’apicultore può intervenire aiutando l’eventuale arnia più debole con quella più forte. Se in un’arnia, ad esempio, viene a mancare la regina, si possono prendere le covate dalle arnie più robuste che aiutano la sopravvivenza di quella più fragile».
Come nasce la sua passione per le api?
«Intanto va detto che – ironia della sorte – io ho paura delle api, come di qualunque altro insetto che abbia un volo irregolare e non prevedibile, anche se è una paura infondata: le api sono creature docili e pungono solo se minacciate. È iniziata per sfida. Lo stesso meccanismo che mi spinge a percorrere un ponte tibetano nonostante io soffra di vertigini».
Tra tante sfide, perché proprio le api?
«Un amico di mio marito, che abita in collina, quando è andato in pensione ha iniziato a lavorare con le api. Ogni volta che veniva a trovarci mi portava un barattolo di miele. Così, un giorno, ho pensato: quasi quasi…».
Ho letto che l’alveare è un super-organismo. Approfondiamo?
«Un super-organismo è un miracolo di intelligenza che, misteriosamente, è privo di “testa”. È una “civiltà” senza coscienza e ragione: solo puro, millenario istinto. Pur essendo composto da numerosi individui, opera come un organismo unico. Ciascuno, fin dalla nascita, sa esattamente che cosa fare e lo fa con precisione millimetrica. Ognuno ha un compito definito, nulla è lasciato al caso, perché le api sono insetti “eusociali”: se fossero essere umani, potremmo dire che hanno più a cuore il bene comune di quello individuale. Sono un meccanismo perfetto che si muove come un tutt’uno».
Che cosa insegna l’universo delle api?
«A lavorare duro. Osservando un alveare si comprende il senso dell’organizzazione, il sacrificio del singolo per la collettività, la meticolosità e la dedizione nello svolgere il proprio compito. S’impara a non essere pressapochisti, perché dal ruolo di ciascuno dipende la sorte dell’intero alveare. Queste cose le api le sanno senza che nessuno gliele insegni: è un imprinting antichissimo. Nel loro aspetto attuale, esistono sulla Terra da 4 milioni di anni».
Le 140 arnie posizionate da Stella Boglione sull’isola sarda di Culuccia
Com’è la sua vita da apicultrice?
«Il mondo delle api è per me una magia. Mi capita di rimanere incantata a osservare le bottinatrici, capaci di “visitare” fino a 2mila fiori al giorno. Oppure a emozionarmi per la nascita di una nuova operaia. Ho ancora i brividi al ricordo della prima volta in cui sono riuscita a distinguere, in mezzo al ronzio dell’alveare, il canto della regina vergine».
Passando ad argomenti più prosaici, quanto miele produce ogni anno?
«A Torino, 30 chili per arnia. In Sardegna, dove la stagione è più breve e siccitosa, si arriva a 10 chili. Va però detto che io faccio apicultura stanziale: non rincorro le fioriture spostando le arnie. Con il nomadismo si produce molto più miele».
Di che qualità parliamo?
«Ogni anno è una scommessa: tutto dipende dalle temperature e dalle piogge. A Torino, l’anno scorso l’apiario urbano non aveva prodotto l’acacia perché le forti piogge ne avevano rovinato la fioritura. Quest’anno, invece, lo stesso apiario ha prodotto l’acacia e anche un ottimo millefiori con punta di tiglio. L’apiario sardo, l’anno scorso ha prodotto ad aprile un millefiori con punta di lavanda, a metà stagione un millefiori con punta di cardo e, alla fine, la melata. Quest’anno a Culuccia, vista la grande siccità, la melata è arrivata prima».
I profani pensano che la melata c’entri con le mele: invece si tratta di un miele particolare, raffinatissimo, che oltre a essere delizioso ha anche proprietà antisettiche, antibatteriche e rafforza memoria e concentrazione. Ci racconta?
«La melata è una sostanza zuccherina secreta da piccoli insetti che si nutrono della linfa degli alberi. Dalla linfa, gli insetti eliminano l’acqua e gli zuccheri in eccesso, dando vita a un nutrimento ricco di sali minerali. Una volta raccolta questa sostanza preziosa, le api la introducono nell’alveare e la trasformano in miele».
Oltre al miele, che cos’altro è prodotto nelle arnie?
«Cera, naturalmente. E poi polline, propoli e la pappa reale, che però io non faccio ancora».
È vero che è la pappa reale a trasformare un’ape in regina?
«Le api sono di due tipi: o maschio o femmina. Il maschio, il cosiddetto fuco, nasce da un uovo non fecondato; l’ape operaia da un uovo fecondato. La differenza tra l’ape operaia e la regina è il nutrimento, che nella cella reale è la pappa reale, mentre nelle altre celle è un “cibo” meno nutriente. Quando le uova sono depositate nelle celle, le ceraiole le chiudono con un velo di cera. Poi la larva si sviluppa e, rompendo l’opercolo, sfarfalla l’ape».
Che cosa consiglia un giovane che vuole diventare apicultore?
«Dedizione, pazienza e tanto spirito di sacrificio, come del resto per qualunque altro mestiere».
Chiudiamo con un giochino alla Proust: se fosse un’ape, quale ape sarebbe?
«Un’operaia. Benché abbia una vita brevissima, tra le 4 e le 6 settimane, ricopre ogni ruolo. Quando nasce fa la pulitrice per due giorni, poi passa ad altre mansioni: nutrice, cortigiana, ceraiola, immagazzinatrice, guardiana, ventilatrice. Infine diventa bottinatrice. Una vita breve e faticosa, però intensa».
Le prime tre arnie di Stella Boglione sul roof garden del Basic Village di Torino
Regina no?
«Nonostante il mito della regina, e il fatto che viva più a lungo, per me è una schiava del sistema: se non svolge correttamente il proprio compito, quel super-organismo che è l’alveare la elimina e la sostituisce. Entro i primi 20 giorni di vita deve fare il volo nuziale, durante il quale si accoppia con un discreto numero di fuchi. Trattiene il seme all’interno di un organo raccoglitore, la spermateca, quindi va di cella in cella a deporre le uova, scegliendo se fecondarle o no secondo la grandezza delle celle».
E il fuco?
«Serve solo a fecondare la regina, non ha nemmeno il pungiglione. Muore subito dopo l’accoppiamento e, se non riesce nel suo compito, torna nell’arnia e ci resta per il resto della stagione. Infine, vivo o morto, viene buttato fuori».
Per le api, il 2017 è stato un anno cruciale: l’Onu ha istituito una Giornata Mondiale dedicata a questi preziosissimi insetti, che si celebra ogni 20 maggio e riconosce la loro importanza strategica per il nostro ecosistema.
Dopo non poche alzate di scudi, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha stabilito che le api sono a gravissimo rischio estinzione a causa di molteplici fattori, tra cui l’eccessiva urbanizzazione a discapito del loro habitat naturale, l’inquinamento ambientale e l’uso fuori controllo dei pesticidi. Secondo gli esperti, le ripercussioni di un mondo senza api sarebbero così gravi da stravolgere il volto della Natura e del nostro stesso Pianeta.
Da quella storica Assemblea, gli interventi per la sensibilizzazione e la salvaguardia delle api si sono moltiplicati, in nome della tutela della biodiversità di flora, fauna e di tutti quegli ecosistemi – non pochi – che soffrirebbero per la loro scomparsa. Così sono nati gli apiari integrati, concetto inizialmente ostico ai più, che esprime null’altro se non un nuovo, moderno e rispettoso concetto di apicoltura e api-cultura. Il primo apiario integrato d’Italia è nato a Marostica, in provincia di Vicenza, sulle colline di San Luca. Qui, Andrea Dal Zotto ha realizzato un’area protetta dove è possibile studiare, osservare e – in definitiva – imparare a rispettare le api e il loro universo.
L’apiario ingrato è composto da una struttura in legno cui vengono collegate, esternamente, le arnie destinate alla produzione del miele, a loro volta modificate per permettere ai profumi provenienti dagli alveari di saturare l’aria sia interna sia esterna. I benefici sono numerosi e interessanti. L’apiario integrato consente, ad esempio, di coniugare l’apicoltura con la pratica dell’api-aroma, speciale trattamento di aromaterapia, e con quella dell’api-sound: là dove ascoltare il suono delle api è molto più che sentire un banale “zzzz”.
Sempre più studi hanno dimostrato che respirare l’aria di un alveare rafforza il sistema immunitario. Che sia merito delle resine o degli olii essenziali sprigionati dalla cera, del propoli o dello stesso miele, una serie di respiri profondi in compagnia delle api solleva lo spirito e fortifica il corpo. Questo tipo di aromaterapia ha un’azione curativa e benefica sull’apparato respiratorio e combatte le infiammazioni e i mali di stagione – quanto meno attenuandoli in maniera significativa. Non meno importante è l’api-sound, aiuto prezioso contro lo stress. Il ronzio delle api, con la sua frequenza di 432Hz, è perfetto per la meditazione e per le pratiche di rilassamento.
L’apiario integrato svolge così molteplici funzioni, sia didattiche sia curative. E, dal 2017 a oggi, sono nati numerosi progetti e altrettanto numerosi apiari. Uno tra gli ultimi a essere inaugurato è il Wonder Bee di Grottole, piccolo comune vicino a Matera (Basilicata), ideato nel 2020 su progetto dall’apicoltore Rocco Filomeno assieme a Davide Tagliabue e Carlo Roccafiorito. L’idea era creare un modello riproducile in scala, in modo da diventare una risorsa per l’intero territorio. Una missione felicemente compiuta, assieme all’obiettivo di fare conoscere alle persone – ma soprattutto ai bambini – le api, il loro mondo meraviglioso e l’importanza sostanziale che hanno per l’ecosistema.
Lo scrittore Mario Rigoni Stern scriveva che «le api sono un insieme e non individui»: per loro è impossibile sopravvivere fuori dalla comunità. Ciascuno di questi incredibili insetti conosce la propria ragione d’essere e adempie ai propri doveri istintivamente, senza che nessuno glielo insegni, imponga o solleciti.
L’ape regina ha il solo compito di deporre le uova per garantire la longevità della famiglia, ed è così solerte da depositarne tra le 2 e le 3mila al giorno. I fuchi non devono far altro che fecondare la regina. Le api operaie, nomen omen, assolvono a tutte le altre mansioni: ci sono le api che puliscono le cellette; le api ceraiole che costruiscono e manutengono i favi di cera; le api becchine che eliminano dall’alveare le api morte; le api guardiane, sentinelle formidabili nate per sorvegliare che nessuno entri nell’alveare.
C’è poi l’ape impollinatrice, la più importante tra tutte, che ha un ruolo fondamentale per garantire e mantenere la biodiversità della flora, e di conseguenza di tutti gli esseri viventi. Volando di fiore in fiore, su specie differenti di piante spontanee e d’interesse agricolo, si sporca il corpo e le zampette di polline, per poi trasportarlo su altri fiori permettendone la riproduzione. Così, se oggi l’incredibile e organizzato universo delle api non è più un mondo conosciuto soltanto da entomologhi, apicoltori e addetti ai lavori, un grazie va anche agli apiari integrati, che stanno avvicinando tantissime persone al loro piccolo, grande, imprescindibile “zzzz”.
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