Questo articolo fa parte del numero 3 di Web Garden: Scienza e Natura.
Un meraviglioso viaggio fra Scienza e Natura, e fra i diversi modi in cui stiamo lottando per preservare il nostro patrimonio.
Nelle notti artiche, la parte alta della facciata diventa un quadrato luminoso, che crea giochi di luce sui ghiacci e indica il cammino,
A 1.200 chilometri dal Polo Nord, dove la notte comincia il 12 novembre e termina a fine gennaio, c’è un arcipelago remoto dov’è custodito il sostentamento dell’umanità. Sono le Svalbard, nazione Norvegia; trenta isole che spuntano, come iceberg addomesticati, dal Mar Glaciale Artico: le ultime terre del Nord abitate dall’uomo.
A queste latitudini selvagge di renne e orsi bianchi, dove per poche ore al giorno l’inverno è addolcito dalla massima luce possibile (l’equivalente del nostro crepuscolo), dal 2007 sorge lo Svalbard Global Seed Vault.
A ospitarla è l’isola di Spitsbergen. Vicino alla cittadina di Longyearbyen e ai suoi 2.500 abitanti, si erge l’Arca di tutti i campi e frutteti del pianeta: un edificio in calcestruzzo lungo 27 metri, largo 10 e alto 6, resistente a incidenti aerei ed esplosioni nucleari, che ricorda – per chi li ricorda – la forma di un videoregistratore.
Entra per 120 metri dentro una montagna di arenaria. È protetto da imponenti porte d’acciaio e raffinati sistemi di sicurezza. Nelle notti artiche, la parte alta della facciata diventa un quadrato luminoso, che crea giochi di luce sui ghiacci e indica il cammino.

Nel 2007, l’allora presidente della Commissione europea José Manuel Barroso lo definì «un giardino dell’Eden ibernato». Immagine poetica per una realtà scientifica, che ne fa piuttosto la cassaforte della biodiversità. Le temperature severe assicurano il mantenimento delle sementi. Il terreno artico non scongela dall’ultima glaciazione (10 mila anni). Alle Svalbard non ci sono terremoti. Nessun luogo è più remoto e sicuro per preservare un patrimonio genetico altrimenti destinato all’oblio. Solo negli Stati Uniti, negli ultimi 100 anni, si è estinto il 93% delle varietà conosciute di frutti e vegetali.
L’industria alimentare sceglie: seleziona, produce e distrugge; perché la biodiversità è antieconomica, però è anche bella.
A Torino, dov’è più facile arrivare, un museo racconta in poche stanze la bellezza perduta della biodiversità. Il Museo della Frutta (museodellafrutta.it) raccoglie l’opera di Francesco Garnier Valetti, curiosa figura d’artista «ceroplasta» che, nella seconda metà dell’Ottocento, realizzò modelli così realistici da prenderli in mano e addentarli.
Oggi la collezione comprende 1.381 opere che testimoniano un passato di biodiversità su cui si è abbattuto un genocidio agricolo: 490 varietà di pere, 286 di mele, 39 di albicocche, 44 di uva, 50 di patate, 73 tra pesche e pesche noci. La prossima spesa al supermercato, pensateci su.