Fin dall'antichità, le civiltà hanno esorcizzato il lutto con architetture, piante e fiori che rendessero omaggio a chi non c’era più

Questo articolo fa parte del numero 8 di Web Garden: Infinito

Nel mese di Halloween – festa pagana di fine ottobre che riporta in vita i morti e, talvolta, spaventa a morte i vivi – il Magazine di Web Garden si cimenta con l’Aldilà tra serietà e leggerezza dall’antico al moderno, dal serio al leggero.


Il primo fu l’Eden, dove morì l’innocenza dell’uomo. Un luogo di abbondanza e bellezza in cui si consumò la prima tragedia dell’Umanità. In quel giardino, che Dante attraversa nel Purgatorio tra il «profumo di fiori», Adamo ed Eva conobbero il primo lutto: la morte di un’esistenza (letteralmente) paradisiaca, primo passaggio verso un «al-di-qua» di miserie terrene.

Così, fin da tempi e luoghi remoti, le civiltà hanno esorcizzato il dolore della perdita con architetture, piante e fiori che rendessero omaggio a chi non c’era più e ne conservassero, in qualche modo, il ricordo: a imitazione di quel Dio biblico che «in Oriente (…) pose l’uomo che aveva formato (…) e un fiume usciva d’Eden per innaffiare il giardino».

Secondo alcuni, l’Eden – che in sumero significa “steppa” o “pianura” – si trovava in una valle fluviale della Mesopotamia. Per altri più a Nord, nell’antica Armenia, vicino ai laghi Van e Urmia; per altri ancora in Israele, a Nord della Galilea; oppure in Egitto, nella fertile valle del Nilo.

Poco importa.

Qualunque “steppa o pianura”, geografica o metaforica, abbia ospitato il Paradiso Terrestre, una cosa è certa: non si trattava di un luogo incolto e selvatico. Fin dall’antichità i giardini erano luoghi recintati, in cui la vegetazione era regolata con raziocinio e curata con sacralità.

Da millenni l’uomo onora i morti e ne tramanda la memoria con piante e fiori, che hanno precise e remote simbologie. In tempi in cui la sopravvivenza e il cibo erano indissolubilmente legati alla Natura, gli alberi venivano onorati come divinità. Per gli Egizi, la dea Nut viveva in cima a un sicomoro (Ficus sycomorus) da cui versava sui defunti l’acqua dell’immortalità.

Per i Norreni, che abitavano la Scandinavia, l’universo era nato da un immenso Yggdrasill: frassino, tasso o quercia non si sa, ma senza dubbio un albero.

Intanto, dall’altro lato dell’Atlantico, genti provenienti dalla Mongolia avevano attraversato lo stretto di Bering e dato origine, 20mila anni fa, ai nativi americani: 250 tribù tra cui i Sioux, che riconoscevano nel Grande Albero il centro del Cerchio del Mondo.

Per i Greci, le mele d’oro nel Giardino delle Esperidi donavano immortalità; mentre il giovane Ciparisso, amante di Apollo, si disperò così tanto per aver provocato la morte del suo cervo addomesticato da trasformarsi in cipresso (Cupressus): da allora e per sempre simbolo di lutto e tristezza, ma anche di eternità.

Piante e morte si accompagnano da millenni, in un’ipotesi di infinito che lenisce lo sconforto dei vivi. Già gli Egizi piantavano fiori all’ingresso delle tombe tagliate nella roccia, come testimonia il più antico orto funerario di cui si abbia traccia. Scoperto nel 2017 nella necropoli di Dra Abu el-Naga, vicino a Luxor, risale alla XII dinastia (circa 4mila anni fa).

Un piccolo giardino di 2 metri per 3, con quadrati interni destinati a palme, sicomori, piante di lattuga e persee (Persea Mill, la cui versione americana più nota è l’avocado): là dove la persea resuscitava i defunti e la lattuga donava fertilità, e dunque ritorno alla vita.

Dell’Antica Roma restano i monumenti funerari fuori le mura, circondati da giardini progettati apposta per dividere i due mondi, che potevano salutarsi da lontano tra la pace delle fronde. Il giardino funerario romano di Torre de Sant Josep (Alicante, Spagna) – oggi restaurato – ospitava mirto, alloro, edera, lavanda, vite, rose rosse e cipressi. E nell’Alto Medioevo, prima delle grandi epidemie, i recinti delle chiese (atri) erano ornati di fiori e piante per accogliere i morti, ma anche eventi di vita pubblica.

Un dotto compendio di botanica funeraria uscito nel 1885 a firma dell’avvocato spagnolo Celestino Ballarat y Falguera, giardiniere per passione, riprende con intelligenza antiche tradizioni e ne classifica di nuove. Ed ecco il salice piangente (Salix babylonica), simbolo del dolore, o l’olmo (Ulmus minor), che rappresenta la forza. La memoria è l’elicriso giallo (Helichrysum stoechas), oppure l’amarantino perpetuino (Gomphrena globosa); l’umiltà, la viola mammola (Viola odorata); la purezza, il giglio di Sant’Antonio (Lilium candidum); l’affetto, l’edera (Hedera helix); l’amore, naturalmente la rosa (Rosa ssp.), ma meglio se lavorata a ghirlanda. Il narciso trombone (Narcissus ssp) è la trasformazione, ma guai a trascurare l’asfodelo mediterraneo (Asphodelus ramosus), perché è lì la chiave dell’immortalità.

Oggi, che tutto è Vulgaris vulgaris (no, non è una pianta), non resta che sublimare millenni di raffinata cultura con quanto offre il mercato: per lo più fiori scelti per la loro durata (quante persone, durante l’anno, replicano il rito del 2 novembre?) che per la propria simbologia. Fiorai e mercati già si preparano a margherite, gladioli, gerbere, garofani; talvolta qualche giglio o una rosa.

Ma soprattutto crisantemi, lo splendido fiore della gioia e della vitalità; in Asia simbolo di matrimoni e in Italia di morti, per la fioritura autunnale che cade proprio a inizio novembre: già pronto per l’occasione, e così sia.