Il Wood Wide Web

Il Wood Wide Web

Questo articolo fa parte del numero 3 di Web Garden: Scienza e Natura.

Un meraviglioso viaggio fra Scienza e Natura, e fra i diversi modi in cui stiamo lottando per preservare il nostro patrimonio.


 Alla fine degli anni ’90 Suzanne Simard, una docente della British Columbia University, pubblicò sulla prestigiosa rivista Nature una ricerca in cui spiegava come nel sottosuolo boschivo le piante fossero collegate tra loro da una rete di funghi, detto sistema delle micorrize (dal greco, “fungo” e “radice”) che cresce all’interno ed intorno alle radici degli alberi, per sviluppare poi delle ramificazioni a filo chiamate “ife” che servono letteralmente da cablaggio alla rete sotterranea. 

La ricerca dimostra che attraverso la rete, tanto fitta che nello spazio di un passo umano vi sono fino a cento kilometri di connessioni, gli alberi più alti e più anziani – detti alberi madre – inviano sostanze nutritive ai più giovani ed in ombra per aiutarli a crescere.

La relazione fra alberi e funghi è di tipo simbiotico gli alberi, che raggiungono più facilmente la luce, cedono ai funghi gli zuccheri che producono attraverso la fotosintesi, mentre i funghi, che colonizzano il terreno con il loro micelio, restituiscono loro sostanze nutritive, come fosforo e nitrogeno, che traggono dal sottosuolo.

Alberi morenti rilasciano le loro risorse attraverso questa rete, affinché i vicini le possano utilizzare, ed in caso di attacco parassitario o di siccità le piante si inviano tra loro messaggi chimici tramite le radici così da avvisare gli altri individui e stimolare le loro difese immunitarie.

Come per la nostra rete internet, anche il Wood Wide Web ha il suo lato oscuro.

È emerso anche che gli alberi madre dimostrano una sorta di nepotismo verso gli alberi della loro stessa specie, per favorire la crescita delle piante a loro affiliate. Come per la nostra rete internet, anche il Wood Wide Web ha il suo lato oscuro: alcune orchidee hackerano il sistema sottraendo alla rete le sostanze di cui hanno bisogno, mentre alcune specie arboree, come il noce nero, inviano tossine per attaccare gli alberi rivali. Al pari di tutte le società che popolano la superficie terrestre, anche il sottosuolo sembra essere caratterizzato dall’eterna dualità fra cooperazione e conflitto. 

Lo studio del Wood Wide Web ha risvolti molto importanti nella ricerca sugli effetti del cambiamento climatico. Dal 2012, l’ecologo britannico Thomas Crowther ha avviato un progetto di mappatura degli alberi della terra, che nel 2015 stimava raggiungere i tre trilioni di individui. Ispirato dai suoi studi, il biologo di Stanford Kabir Peay gli ha proposto di realizzare lo stesso tipo di mappatura per la rete sotterranea.

I due studiosi hanno quindi costituito un team di ricercatori del Crowther Lab all’EHT di Zurigo in Svizzera e dell’Università di Stanford negli Stati Uniti, che nel 2019 ha portato alla realizzazione della mappatura della rete di funghi, batteri e radici che da 500 milioni di anni connette fra loro le piante di boschi, tundre e foreste pluviali. Lo studio rivela che i funghi che costituiscono la rete sono sostanzialmente di due specie: una che emette anidride carbonica nell’atmosfera, ed una che invece è capace di stoccarla e quindi di ridurla.

Quest’ultima varietà tuttavia è più debole e molto più sensibile al cambiamento climatico, tanto che, se non saremo in grado di ridurre in modo sostanziale le emissioni di gas serra, questi funghi tanto preziosi ed i loro alberi ospiti potrebbero ridursi nel 2100 al solo 10%.

È evidente quindi quanto la preservazione del Wood Wide Web sia fondamentale per affrontare la crisi climatica, ma anche quanto la sua struttura sia vulnerabile, poiché i funghi che riducono l’anidride carbonica vanno via via riducendosi in favore di quelli che ne emettono, con la conseguente accelerazione del riscaldamento globale.

Danneggiare o perdere questa ricchezza sotterranea può aggravare il circolo vizioso del cambiamento climatico in modo sostanziale. Queste informazioni sono anche di grande utilità per la gestione dei programmi di riforestazione, come la Trillion Tree Campaign dell’ONU, di cui Crowther è il consulente principale, volto proprio a conservare l’equilibrio delle nostre riserve verdi, oggi così in pericolo.

Intervista a Aqua Aura

Intervista a Aqua Aura

Questo articolo fa parte del numero 3 di Web Garden: Scienza e Natura.

Un meraviglioso viaggio fra Scienza e Natura, e fra i diversi modi in cui stiamo lottando per preservare il nostro patrimonio.


“Ogni componente reale del mondo costruisce la mia idea di immagine, un meta-mondo di sfera che contiene tutto il visibile. Mi occupo di arte visiva e quindi il terreno primo è ciò che noi vediamo e come lo vediamo.”

WebGarden: Aqua Aura, perché hai scelto uno pseudonimo?

La scelta del nome ha a che vedere con la mia storia personale e  con quella professionale. Avendo avuto una piccola storia da artista negli anni ’90 e avendo fatto altro per 12 anni, nel ritorno all’arte avevo bisogno di un nome che creasse una divergenza tra il passato e il presente. 

Aqua Aura è un quarzo modificato dall’uomo. Il suo nome mi piaceva per due ragioni: la prima perché ha quasi una simmetria, simmetria imperfetta perché negata da una lettera, ed è anche quello su cui lavoro, ordine e disordine. L’altra componente perché l’aqua aura subisce una modificazione da un agire umano: è un elemento che ha subito una mutazione, un po’ come me.

WebGarden: Siamo abituati a vedere la natura che ci circonda a occhio nudo. Le tue fotografie, opere d’arte, approfondiscono e ingrandiscono le immagini naturali manipolandole, fino a ottenere quel mix di poesia e scienza che caratterizza i tuoi lavori. Come vengono create le tue opere? Che tecnologie utilizzi per la loro realizzazione e stampa?

Le tecnologie sono quelle utilizzate oggi nel cinema e nella comunicazione in generale, tutti software relativi alla gestione delle immagini fotografiche e all’apparato 3d. 

I lavori seguono due linee contrapposte: nella prima le immagini si compongono nella mente in una sorta di rivelazione, un’annunciazione, nella seconda, invece, si entra in una modalità da laboratorio, si prova, si cercano le relazioni tra le immagini, nelle loro geometrie, nelle loro alchimie. Si testano, insomma, le possibilità degli oggetti e delle immagini di stare insieme e spesso è un lavoro lungo che può richiedere anche dei mesi. 

WebGarden: Web Garden è un progetto che guarda il bello e la natura: qual è il tuo rapporto con la natura? E quanto influisce sul tuo lavoro?

La natura in realtà è per me uno dei due paradigmi con cui mi trovo a relazionarmi. Il primo è il pensiero. Il secondo è la natura. Il primo in realtà è all’interno di ognuno di noi, è la meccanica della nostra mente.

La seconda è una forma alterata, quella che preferisco, perché ha a che fare con un senso di assoluto. Siccome questo senso di assoluto è in dissoluzione nel nostro momento storico, si preferisce la frammentazione.

Questo per me è un caposaldo di un’estrema autorità, dell’attività spirituale, che credo sia ancora uno degli elementi costitutivi dell’espressione artistica: è pervasiva, ma è anche è una cosa che sta svanendo. E quindi questa sensazione di sparizione è per me fondamentale: la ricerco nelle opere, la indago nelle opere. Pur essendo sempre alla ribalta per questioni di tipo ecologista, in realtà è una delle componenti del nostro mondo che si tende a dimenticare molto velocemente.

La mia radice è sempre scientifica e poi ricade su un territorio narrativo, di contemplazione.

WebGarden: In alcune tue serie accosti ingrandimenti esagerati di componenti del nostro corpo con elementi naturali di facile riconoscibilità come i fiori. Che cosa ti ha portato ad accostare insieme il mondo umano e quello vegetale?

Mi ci ha portato un’idea prettamente scientifica, cioè nell’infinitamente piccolo queste differenze non esistono. L’infinitamente piccolo di un corpo umano rispetto a quello di altri organismi è la stessa cosa, in cui la vera dinamica è la relazione tra le particelle. Sostanzialmente la costruzione di questo mondo e composizione universale è possibile nell’infinitamente piccolo.

La mia radice è sempre scientifica e poi ricade su un territorio narrativo, di contemplazione.

WebGarden: Come  nasce l’accostamento delle diverse componenti delle fotografie?

Nasce su percorsi di ricerca, non in senso scientifico, nel senso di provare e riprovare. La vicinanza tra un fiore, una pianta e gli elementi che fanno parte del corpo umano parte da un accumulo di immagini.

Parto dal presupposto che esiste un ritratto del mondo che contiene tutte queste componenti, noi siamo creatori di immagini del mondo, tutti quelli che caricano immagini sulla rete vanno in qualche modo a costituire una porzione di mosaico infinito, il racconto per immagini del mondo. Io sono un collezionista di immagini, che fanno parte sia del visibile, che dell’invisibile, dove per invisibile intendo quello documentato dalle macchine, che estendono la capacità del nostro occhio.

Tutto questo apparato, dall’infinitamente piccolo, all’universalmente grande, è privo di gerarchia.

Opera fotografica di Acqua Aura intitolata Nonema n.2
Courtesy: Aqua Aura

WebGarden: Ci sono organismi che ancora non hai studiato e vorresti approfondire?

Non li definirei organismi, sono le particelle elementari: è molto tempo che sto riflettendo su come approcciare questo mondo dell’invisibile. Non sono ancora riuscito a focalizzare il metodo, ma non demordo. L’altra componente che vorrei indagare è l’energia che viaggia nello spazio e questa ricerca mi spinge ad accostarmi alla fisica teorica.

WebGarden: Che cosa rappresenta per te la scienza oggi? Che rapporto hai con gli scienziati?

n questo tempo la scienza è la vera protagonista del nostro universo. Ci siamo abituati alla scienza come a qualcuno che ci deve dare una verità assoluta in cui muoverci. In realtà io sono più attratto da quel mondo della scienza che è pura intuizione, quindi dalla fisica teorica, che poggia il suo fare su dati scientifici accertati, in realtà richiede un grande sforzo immaginativo, richiede la capacità di creare mondi puramente teorici, puramente immaginari.

Ora questa capacità, che è sempre stata appannaggio degli artisti, credo che oggi nelle frange delle teorie cosmologiche della materia venga posseduta completamente, come se ci fosse stato uno slittamento, oltre all’arte, lo scienziato teorico possiede queste capacità immaginativa, che poi a differenza dell’arte deve venire cercata e confermata. Ma questo infinito universo di ricreazione mentale del mondo è una componente di forte attrazione per me. Credo sia la forza che più importante della scienza. 

WebGarden: Ti dividi tra Milano e l’Islanda: quanto ti ha influenzato la cultura nordica nei tuoi lavori? In Islanda il rapporto uomo natura è diverso da quello italiano?

Io sono un ricercatore del concetto di sublime, che è un concetto anacronistico. Ma questo elemento della totalità è naturale trovarlo nei luoghi del selvaggio estremo. Questa wilderness oggi più che alla giungla ottocentesca appartiene a questi mondi, nell’estremo nord e estremo sud del mondo. In questi luoghi la luce è una componente fondamentale, sopratutto per me che vengo dal mondo della fotografia: sono stati luoghi di attrazione totale ed è qui che ho trovato il materiale del mio racconto e che mi ha accompagnato nella mia ricerca artistica dal 2011 a oggi.

WebGarden: Hai mai pensato di trasformare le tue creazioni in opere tridimensionali?

Assolutamente sì e ci sono stati tentativi in passato con la tecnologia della prototipazione e con tecnologie più tradizionali come la scultura su alabastro. Mi sono però limitato ad alcune componenti del mio lavoro, come quelle molecolari, piuttosto quelle dell’estremamente piccolo.

Sono alla continua ricerca di una tecnologia che permetta un’opera che sia un concetto più esteso. Mi immagino una fisicità che porti un coinvolgimento fisico allo spettatore. Un elemento reale ius cui vivere come un’architettura. Quando avrò trovato la mia tecnologia, il mio meccanismo, saprò essere più preciso. O forse non ce ne sarà bisogno perché a quel punto ci sarà l’opera che parlerà per me.

Il regno glaciale della biodervisità

Il regno glaciale della biodervisità

Questo articolo fa parte del numero 3 di Web Garden: Scienza e Natura.

Un meraviglioso viaggio fra Scienza e Natura, e fra i diversi modi in cui stiamo lottando per preservare il nostro patrimonio.


Nelle notti artiche, la parte alta della facciata diventa un quadrato luminoso, che crea giochi di luce sui ghiacci e indica il cammino,

A 1.200 chilometri dal Polo Nord, dove la notte comincia il 12 novembre e termina a fine gennaio, c’è un arcipelago remoto dov’è custodito il sostentamento dell’umanità. Sono le Svalbard, nazione Norvegia; trenta isole che spuntano, come iceberg addomesticati, dal Mar Glaciale Artico: le ultime terre del Nord abitate dall’uomo.

A queste latitudini selvagge di renne e orsi bianchi, dove per poche ore al giorno l’inverno è addolcito dalla massima luce possibile (l’equivalente del nostro crepuscolo), dal 2007 sorge lo Svalbard Global Seed Vault.

A ospitarla è l’isola di Spitsbergen. Vicino alla cittadina di Longyearbyen e ai suoi 2.500 abitanti, si erge l’Arca di tutti i campi e frutteti del pianeta: un edificio in calcestruzzo lungo 27 metri, largo 10 e alto 6, resistente a incidenti aerei ed esplosioni nucleari, che ricorda – per chi li ricorda – la forma di un videoregistratore.

Entra per 120 metri dentro una montagna di arenaria. È protetto da imponenti porte d’acciaio e raffinati sistemi di sicurezza. Nelle notti artiche, la parte alta della facciata diventa un quadrato luminoso, che crea giochi di luce sui ghiacci e indica il cammino.

Nel 2007, l’allora presidente della Commissione europea José Manuel Barroso lo definì «un giardino dell’Eden ibernato». Immagine poetica per una realtà scientifica, che ne fa piuttosto la cassaforte della biodiversità. Le temperature severe assicurano il mantenimento delle sementi. Il terreno artico non scongela dall’ultima glaciazione (10 mila anni). Alle Svalbard non ci sono terremoti. Nessun luogo è più remoto e sicuro per preservare un patrimonio genetico altrimenti destinato all’oblio. Solo negli Stati Uniti, negli ultimi 100 anni, si è estinto il 93% delle varietà conosciute di frutti e vegetali.

L’industria alimentare sceglie: seleziona, produce e distrugge; perché la biodiversità è antieconomica, però è anche bella. 

A Torino, dov’è più facile arrivare, un museo racconta in poche stanze la bellezza perduta della biodiversità. Il Museo della Frutta (museodellafrutta.it) raccoglie l’opera di Francesco Garnier Valetti, curiosa figura d’artista «ceroplasta» che, nella seconda metà dell’Ottocento, realizzò modelli così realistici da prenderli in mano e addentarli.

Oggi la collezione comprende 1.381 opere che testimoniano un passato di biodiversità su cui si è abbattuto un genocidio agricolo: 490 varietà di pere, 286 di mele, 39 di albicocche, 44 di uva, 50 di patate, 73 tra pesche e pesche noci. La prossima spesa al supermercato, pensateci su.