Questo articolo fa parte del numero 8 di Web Garden: Infinito
Nel mese di Halloween – festa pagana di fine ottobre che riporta in vita i morti e, talvolta, spaventa a morte i vivi – il Magazine di Web Garden si cimenta con l’Aldilà tra serietà e leggerezza dall’antico al moderno, dal serio al leggero.
Chi è Carlo Galfione? Un pittore, restauratore, musicista, motociclista? Un artista, ma anche molto di più. Le etichette gli stanno strette. Sicuramente è un pensatore, che ha delle idee forti e ben definite, che racconta con entusiasmo ed educazione sabauda.
WebGarden: Che cos’è per te la Natura?
Carlo Galfione: Siamo partiti dalla natura. Ma cosa è ora? La natura ormai è diventata narrazione, ha perso quella valenza di liberazione e di “naturalità”. Vive in una dimensione di marketing e quindi a noi cosa rimane? Cavalcare quest’onda, immergerci totalmente. In questa ottica nasce il dipinto Fake Story (2021, olio su tessuto a rilievo, cm 150 x 120): ho scattato di nascosto una foto a uno dei banner dell’Ikea e l’ho dipinta su un tessuto storico. Le ho dato una seconda vita, sembra più vera della fotografia originale, senti quasi l’odore di muschio. L’immaginario figurativo dal quale traggo ispirazione è praticamente solo quello che attingo dai social: “rubo” le immagini dagli amici così come dagli sconosciuti. Che poi è il concetto della mia ultima mostra, dal titolo “Le Vite degli altri”. Mi approprio dei loro ricordi visivi, e li rappresento decontestualizzati.
Per esempio in questo paesaggio la fotografia è stata scattata in treno vicino a Udine: mi sono immaginato che Riccardo (il titolare della foto n.d.r.) fosse triste per la separazione dalla figlia. Per questo l’ho dipinto su un broccato un po’ cupo. Ma magari Riccardo non era per niente triste, la sua immagine è stata un’ottima base per raccontare un’altra storia, la mia.
La natura traspare, spesso letteralmente, in tutte le sue opere, dalle ninfee, che con i loro fiori rosa ci osservano, ai paesaggi naturali con il punto di fuga tendente all’infinito della Mongolia, dove le tende rappresentate dialogano coi govoni della toile de Jouy su cui è dipinta l’opera.
Il paesaggio si fonde con la texture del tessuto e lo lascia intravedere sotto la matericità del colore, creando un sottile legame tra natura e artificio pittorico.
Nella nostra cultura la bellezza è quasi data per scontata. Nel mio lavoro cerco di ritrovare un canone estetico, partendo da frammenti, fino a trasformarli in altro, affinché possa essere osservato da altri occhi e altri punti di vista.
Infatti uno dei tuoi segni distintivi è proprio il tessuto. Come nasce per te il suo utilizzo?
L’uso del tessuto nasce da un discorso di omologazione estetica. Si tratta di una codificazione del bello, che nasce con la prima vera rivoluzione industriale: la tessitura. Con la creazione su larga scala un tessuto bello, artistico e decorativo può arrivare a tutti. Stesso discorso per le carte da parati. Ormai per me è diventato non solo pattern decorativo, ma ormai fa parte delle mie opere, diventa una trasparenza su cui compaiono altri elementi, altre storie, fino a far fondere i materiali insieme. Il tessuto quasi assorbe la storia e gli riesco a dare nuova vita. A volte i tessuti sono antichi e arrivano dai luoghi più disparati.
La toile de Jouy, per esempio, era molto usata nei paesi del centro Europa e rappresenta scene leggere, musicali e agresti – portatrici di canoni estetici così come di modelli sociali. A guardarle con attenzione possono raccontare un sacco di storie e si accostano nelle mie opere completandole e arricchendole di dettagli.
Carlo, quando osservo le tue opere trovo altri elementi ricorrenti che mi permettono di identificare il tuo lavoro: i tasselli.
Piano piano mi sono accorto che nei miei dipinti mancava qualcosa e quindi ho iniziato ad aggiungere dei tasselli. Apparentemente sembrano dei tasselli di pulitura, ma in realtà si tratta di elementi che aggiungo una volta finito il disegno figurativo. Rappresentano per me una stratificazione che segna una scansione temporale del lavoro. Sono disposti sui dipinti seguendo spesso una ritmica musicale e a livello cromatico sono una sintesi di tutti i colori che uso sulla mia tavolozza. Sembrano quasi delle sfocature di quello che ci sarebbe al di sotto di essi. Sono come una nota decontestualizzata, può essere sola, ma può farsi sinfonia.
Hai partecipato anche a un progetto particolare, legato al tema del momento del commiato. Come si è sviluppato?
Avevo già lavorato sulla stratificazione della memoria, ma mai sulla morte. Ho guardato alla storia e all’archeologia attraverso una chiave estetica. Ho camminato a lungo al Cimitero Monumentale. E ho trovato nella natura e negli elementi floreali un linguaggio valido per tutti.
Ho prodotto carte da parati, su cui sono intervenuto con tecniche diverse, con le quali ho coperto porzioni di parete. Mi piace l’idea che possano assorbire storie e farsi tramite di significati, come degli affreschi staccati. Ho voluto attribuire significati e concetti che si adattassero al contesto specifico.
Questo articolo fa parte del numero 8 di Web Garden: Infinito
Nel mese di Halloween – festa pagana di fine ottobre che riporta in vita i morti e, talvolta, spaventa a morte i vivi – il Magazine di Web Garden si cimenta con l’Aldilà tra serietà e leggerezza dall’antico al moderno, dal serio al leggero.
“Lasciate ogni speranza voi ch’intrate”: il monito che accoglie Dante al suo ingresso all’Inferno ben si adatterebbe ai visitatori del Poison Garden del castello di Alnwick, il giardino più velenoso del mondo.
Pesanti cancelli di ferro nero come la notte, decorati da inquietanti teschi, si aprono su un giardino interamente dedicato alle piante velenose, molte delle quali conducono a morte certa, che sia dolcemente o fra atroci dolori: ce n’è per tutti i gusti.
Capita sovente infatti che alcuni visitatori più temerari ed incuranti delle regole imposte all’ingresso del giardino, svengano o siano colti da malori, nonostante le protezioni di cui sono obbligatoriamente forniti per potersi addentrare fra i viali.
Questo luogo unico al mondo è il frutto degli sforzi della Duchessa di Northumbeland, Jane Percy, che ricevette in eredità la proprietà nel 1995 in seguito alla morte inaspettata del cognato e del nipote. Il magnifico castello ha sede nel Nord dell’Inghilterra, al confine con la Scozia, ed è stato anche utilizzato come set per i primi due film della celebre saga di Harry Potter.
Oggi il parco di Alnwick si estende su 14 ettari ed è divenuto una delle principali attrazioni turistiche della regione, richiama più di 600,000 visitatori l’anno.
Quando i nuovi proprietari vi entrarono in possesso, il giardino era da tempo in completo disuso e suo marito affidò a Lady Percy il compito di rimetterlo in sesto, pensando forse che si sarebbe dilettata a piantare qualche roseto e curare un orto. Ma la duchessa, ispirata da un viaggio in Italia in cui aveva visitato uno dei giardini Medici dedicato alle piante tossiche, aveva in mente un progetto assai più originale ed ambizioso.
Nel 1996 ingaggiò l’architetto paesaggista Jaques Wirtz, che aveva lavorato alle Tuileries di Parigi ed al giardino della residenza presidenziale francese, ed insieme decisero di reinventare completamente questo luogo.
Il Poison Garden contiene oltre cento piante tossiche o velenose: il capo giardiniere, Trever Jones, cura le sue piante interamente coperto da una tuta protettiva, guanti ed una visiera che gli cela il volto, perché l’intossicazione e l’avvelenamento provocato dalle specie di cui si occupa potrebbe avvenire non solo per contatto, ma anche per inalazione dei loro effluvi.
Queste piante pericolosissime nascondono spesso le loro proprietà dietro un aspetto del tutto innocuo.
Accanto a specie dalle ben note proprietà narcotiche, come la coca, la cannabis, il tabacco o i papaveri da cui si estrae l’oppio, vi si trova la Atropa Belladonna, le cui bacche sono letali (ne bastano appena quattro per uccidere un bambino), la Strychnos Nux-Vomica, dalla quale deriva la stricnina, il Lauburnum, un albero i cui bei fiori gialli uccidono, o l’Aconitum, dai graziosi fiori blu e dalle bacche velenosissime. Nel caso di questa pianta però non ci si deve solo astenere dal cibarsi delle sue bacche: ad uccidere sarebbero anche le foglie, le radici e gli stemmi. Toccare la panace invece induce una reazione fototossica che brucia la pelle, procurando vesciche e ferite che possono continuare ad affliggere il malcapitato per sette anni.
Uno degli aspetti più interessanti di questa raccolta di piante a dir poco ostili all’uomo, è il riconoscere fra di esse diverse varietà estremamente comuni nei nostri giardini. Molti non sanno per esempio che l’alloro può essere altamente tossico e che da esso si estrae il cianuro. La pianta preferita dalla duchessa è però la Brugmansia, o Tromba degli Angeli, una pianta tropicale che proviene dal Sud America: prima di uccidere sprigiona proprietà altamente afrodisiache. Le donne vittoriane più audaci erano solite conservare uno dei suoi fiori sul tavolo da gioco e inalare piccole quantità del suo polline per elicitare un’esperienza psicotropa simile a quella che si ottiene oggi con l’LSD.
Questo progetto così unico e per certi aspetti spiritoso, è stato concepito anche con uno scopo pedagogico: Lady Percy sostiene infatti che offra l’opportunità ai bambini di apprendere gli effetti nefasti delle droghe in un modo del tutto originale, coinvolgendoli ed interessandoli senza dar loro l’impressione di impartire una lezione.
Questo articolo fa parte del numero 8 di Web Garden: Infinito
Nel mese di Halloween – festa pagana di fine ottobre che riporta in vita i morti e, talvolta, spaventa a morte i vivi – il Magazine di Web Garden si cimenta con l’Aldilà tra serietà e leggerezza dall’antico al moderno, dal serio al leggero.
Dal Giappone rurale alla scena artistica di New York fino alla Tokyo contemporanea: Yayoi Kusama.
Una figura leggendaria quella dell’artista nipponica, che ancora crea scalpore in patria ma che di certo, oltre ad averla resa iconica e leggendaria , spinge chi si avvicina alla sua produzione e in qualche modo alla sua storia a compiere un viaggio al limite tra una fiaba e uno shock.
Yayoi Kusama, classe 1929, nasce Matsumoto, in Giappone. Cresce in un Giappone misogino e arretrato, in cui viene perennemente ostacolata dalla madre tradizionalista che la obbliga ad andare con il padre agli incontri con le geishe e che cerca di allontanarla dalla sua vocazione per la pittura, e più in generale l’arte.
In tenera età, con l’insorgere di particolari disturbi psico-emotivi, inizia a dipingere. A dieci anni, nel momento in cui sopraggiungono allucinazioni uditive e visive, cerca e spontaneamente trova nella pittura lo strumento attraverso cui rapportarsi, per esprimere tutta la sua complessa emotività.
Crescendo comprende sempre più che in “quel Giappone” e in “quella famiglia” non avrà la libertà di pensiero e gli strumenti di cui avrebbe bisogno per dare sfogo alla sua creatività, alle sue emozioni più intime.
Così, arriva il momento del viaggio verso quel luogo in cui tutto sempre possibile, the Big Apple: New York la accoglie, la contamina e a fine anni ’50 le offre la possibilità di esporre i primi lavori, quelli che la renderanno poi riconoscibile per l’incredibile ossessione per i punti, ovvero tele lunghe quasi dieci metri in cui si ripetono infiniti punti di struttura e di centro. Lavori che andranno a comporre la serie di produzioni Infinity Net e che le permetteranno di essere riconosciuta come artista rivoluzionaria, consolidando la sua posizione dell’avanguardia newyorkese.
Al centro del mondo dell’arte negli anni ’60, è entrata in contatto con artisti tra cui Donald Judd, Andy Warhol, Joseph Cornell e Claes Oldenburg. Ha barattato la sua identità di “estranea” in molti contesti: come artista donna in una società dominata dagli uomini, come giapponese nel mondo dell’arte occidentale e come vittima dei suoi stessi sintomi nevrotici e ossessivi.
Ma a metà degli anni ’70, dopo aver raggiunto fama e notorietà, torna in Giappone che dice aver perso “la parte migliore della propria storia per ricorrere ad una squallida modernizzazione”. Dopodiché entra volontariamente nell’ospedale psichiatrico di Seiwa, probabilmente nell’esigenza ossessiva di potersi riabilitare dai traumi psicologici che l’hanno segnata, ma non smette di dipingere e produrre dipinti e installazioni che faranno di lei una delle artiste più prolifiche della scena contemporanea.
Ma perché raccontare la sua storia per questo numero del magazine di Web Garden?
Perché la Kusama è legata alla zucca, uno dei simboli indiscussi della festa di Halloween. Se l’usanza nell’impiego delle zucche come ornamento nella festa più spettrale dell’anno potrebbe collocarsi all’interno di una leggenda irlandese secondo cui tal Jack’o’lantern fece un patto col diavolo che diede a Jack un tizzone ardente da collocare in una rapa (nella tradizione irlandese c’era prima la rapa poi è arrivata la zucca) per farsi luce nel buio della notte. In questo modo lo spirito di Jack rimase a vagare nell’oscurità e nella notte di Halloween errava in cerca di un posto dove stare.
Per l’artista si lega invece alla storia familiare: la sua famiglia coltivava semi di piante a Matsumoto e imparò a conoscere la zucca kabocha nei campi che circondavano la sua casa d’infanzia, tanto da scrivere nel suo libro Infinity Net: l’Autobiografia di Yayoi Kusama: ‘Sembra che le zucche non ispirino molto rispetto. Ma sono rimasta incantata dalla loro forma affascinante e accattivante. Ciò che mi ha attratto di più è stata la generosità senza pretese della zucca. Questo e il suo solido equilibrio spirituale”.
In occasione del Fiac Hors les Murs, famosa fiera d’arte parigina, Yayoi Kusama propone e installa una gigantesca scultura di zucca gonfiabile vicino alla Colonna Vendôme, in Place Vendôme, coperta con il suo caratteristico motivo a pois: “Life of the Pumpkin Recites, All About the Biggest Love for the People”, la più grande zucca mai realizzata da Kusama in tutta la sua carriera.
Yayoi Kusama, a più di 90 anni, continua a produrre opere che vanno ad arricchire la collezione My Eternal Soul, esposta in parte in questo momento a Tokyo: duecentosettanta opere che raccontano il pensiero più recente della pittrice, e che danno origine a una sintesi tra i vecchi lavori e quelli nuovi.
Una figura leggendaria quella dell’artista nipponica, che ancora crea scalpore in patria ma che di certo, oltre ad averla resa iconica e leggendaria, spinge chi si avvicina alla sua produzione e in qualche modo alla sua storia a compiere un viaggio al limite tra una fiaba e uno shock.
Esattamente come il mood con cui siamo chiamati ad approcciare il mese di ottobre.
Questo articolo fa parte del numero 8 di Web Garden: Infinito
Nel mese di Halloween – festa pagana di fine ottobre che riporta in vita i morti e, talvolta, spaventa a morte i vivi – il Magazine di Web Garden si cimenta con l’Aldilà tra serietà e leggerezza dall’antico al moderno, dal serio al leggero.
Il primo fu l’Eden, dove morì l’innocenza dell’uomo. Un luogo di abbondanza e bellezza in cui si consumò la prima tragedia dell’Umanità. In quel giardino, che Dante attraversa nel Purgatorio tra il «profumo di fiori», Adamo ed Eva conobbero il primo lutto: la morte di un’esistenza (letteralmente) paradisiaca, primo passaggio verso un «al-di-qua» di miserie terrene.
Così, fin da tempi e luoghi remoti, le civiltà hanno esorcizzato il dolore della perdita con architetture, piante e fiori che rendessero omaggio a chi non c’era più e ne conservassero, in qualche modo, il ricordo: a imitazione di quel Dio biblico che «in Oriente (…) pose l’uomo che aveva formato (…) e un fiume usciva d’Eden per innaffiare il giardino».
Secondo alcuni, l’Eden – che in sumero significa “steppa” o “pianura” – si trovava in una valle fluviale della Mesopotamia. Per altri più a Nord, nell’antica Armenia, vicino ai laghi Van e Urmia; per altri ancora in Israele, a Nord della Galilea; oppure in Egitto, nella fertile valle del Nilo.
Poco importa.
Qualunque “steppa o pianura”, geografica o metaforica, abbia ospitato il Paradiso Terrestre, una cosa è certa: non si trattava di un luogo incolto e selvatico. Fin dall’antichità i giardini erano luoghi recintati, in cui la vegetazione era regolata con raziocinio e curata con sacralità.
Da millenni l’uomo onora i morti e ne tramanda la memoria con piante e fiori, che hanno precise e remote simbologie. In tempi in cui la sopravvivenza e il cibo erano indissolubilmente legati alla Natura, gli alberi venivano onorati come divinità. Per gli Egizi, la dea Nut viveva in cima a un sicomoro (Ficus sycomorus) da cui versava sui defunti l’acqua dell’immortalità.
Per i Norreni, che abitavano la Scandinavia, l’universo era nato da un immenso Yggdrasill: frassino, tasso o quercia non si sa, ma senza dubbio un albero.
Intanto, dall’altro lato dell’Atlantico, genti provenienti dalla Mongolia avevano attraversato lo stretto di Bering e dato origine, 20mila anni fa, ai nativi americani: 250 tribù tra cui i Sioux, che riconoscevano nel Grande Albero il centro del Cerchio del Mondo.
Per i Greci, le mele d’oro nel Giardino delle Esperidi donavano immortalità; mentre il giovane Ciparisso, amante di Apollo, si disperò così tanto per aver provocato la morte del suo cervo addomesticato da trasformarsi in cipresso (Cupressus): da allora e per sempre simbolo di lutto e tristezza, ma anche di eternità.
Piante e morte si accompagnano da millenni, in un’ipotesi di infinito che lenisce lo sconforto dei vivi. Già gli Egizi piantavano fiori all’ingresso delle tombe tagliate nella roccia, come testimonia il più antico orto funerario di cui si abbia traccia. Scoperto nel 2017 nella necropoli di Dra Abu el-Naga, vicino a Luxor, risale alla XII dinastia (circa 4mila anni fa).
Un piccolo giardino di 2 metri per 3, con quadrati interni destinati a palme, sicomori, piante di lattuga e persee (Persea Mill, la cui versione americana più nota è l’avocado): là dove la persea resuscitava i defunti e la lattuga donava fertilità, e dunque ritorno alla vita.
Dell’Antica Roma restano i monumenti funerari fuori le mura, circondati da giardini progettati apposta per dividere i due mondi, che potevano salutarsi da lontano tra la pace delle fronde. Il giardino funerario romano di Torre de Sant Josep (Alicante, Spagna) – oggi restaurato – ospitava mirto, alloro, edera, lavanda, vite, rose rosse e cipressi. E nell’Alto Medioevo, prima delle grandi epidemie, i recinti delle chiese (atri) erano ornati di fiori e piante per accogliere i morti, ma anche eventi di vita pubblica.
Un dotto compendio di botanica funeraria uscito nel 1885 a firma dell’avvocato spagnolo Celestino Ballarat y Falguera, giardiniere per passione, riprende con intelligenza antiche tradizioni e ne classifica di nuove. Ed ecco il salice piangente (Salix babylonica), simbolo del dolore, o l’olmo (Ulmus minor), che rappresenta la forza. La memoria è l’elicriso giallo (Helichrysum stoechas), oppure l’amarantino perpetuino (Gomphrena globosa); l’umiltà, la viola mammola (Viola odorata); la purezza, il giglio di Sant’Antonio (Lilium candidum); l’affetto, l’edera (Hedera helix); l’amore, naturalmente la rosa (Rosa ssp.), ma meglio se lavorata a ghirlanda. Il narciso trombone (Narcissus ssp) è la trasformazione, ma guai a trascurare l’asfodelo mediterraneo (Asphodelus ramosus), perché è lì la chiave dell’immortalità.
Oggi, che tutto è Vulgaris vulgaris (no, non è una pianta), non resta che sublimare millenni di raffinata cultura con quanto offre il mercato: per lo più fiori scelti per la loro durata (quante persone, durante l’anno, replicano il rito del 2 novembre?) che per la propria simbologia. Fiorai e mercati già si preparano a margherite, gladioli, gerbere, garofani; talvolta qualche giglio o una rosa.
Ma soprattutto crisantemi, lo splendido fiore della gioia e della vitalità; in Asia simbolo di matrimoni e in Italia di morti, per la fioritura autunnale che cade proprio a inizio novembre: già pronto per l’occasione, e così sia.
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