Il roseto comunale di Roma

Il roseto comunale di Roma

Questo articolo fa parte del numero 13 di Web Garden: in nome della Rosa

Il Roseto di Roma Capitale, un tesoro cittadino e nazionale nel cuore della Città eterna con più di 1100 varietà di Rose… e qualche curiosità!

A Roma, ai piedi dell’Avventino, si trova il Roseto Comunale. Un tesoro cittadino nel cuore della Città eterna, un roseto che ospita più di circa 1.100 varietà di rose provenienti da tutto il mondo, persino dalla Cina e dalla Mongolia. Fra le più curiose, la Rosa Chinensis Virdiflora, dai petali di color verde, la Rosa Chinensis Mutabilis, che cambia colore con il passare dei giorni e la Rosa Foetida, una rosa maleodorante.

Nel visitarlo per Web Garden abbiamo avuto il piacere di incontrare il signor Antonello, il responsabile del Roseto di Roma Capitale, e abbiamo approfittato della sua cortesia e professionalità per farci raccontare la storia di questo magnifico giardino e su quale, fra le tante rose che avevamo davanti, meritava, secondo lui, concentrare la nostra attenzione.


« Ci troviamo all’Aventino, precisamente dove, fra il 1645 al 1934 sorgeva “l’Orto degli Ebrei” e il vecchio cimitero della comunità ebraica di Roma. Ai tempi, il cimitero, lambiva il Circo Massimo dalla Bocca della Verità fino all’attuale sede della FAO e l’attuale fermata della metropolitana. Nel 1934, con il nuovo piano regolatore, il Comune decise di dismettere il cimitero liberando lo spazio per l’attuale Via del Circo Massimo.

Il cimitero venne così spostato nel comprensorio del cimitero monumentale del Verano e per anni questa zona rimase incolta, fino agli anni 50 quando si decise di dare vita all’attuale Roseto.

In realtà a Roma esisteva già un roseto comunale, situato però sul Colle Oppio dal 1932 al 1939, ma distrutto durante gli anni della guerra. Quando nel ’50 il Comune decise di riportare in vita il roseto, la scelta caddè proprio su quest’area grazie anche alla collaborazione della comunità ebraica. »

Occorre sottolineare la particolarità della struttura del roseto. Infatti, per ricordare l’antica destinazione cimiteriale e in accordo con la comunità, i viali interni del roseto vennero progettati in modo da riprendere la forma del candelabro ebraico a sette bracci, il « Menorah».

Gli abbiano chiesto di parlare di una rosa in particolare e Antonello ci porta davanti alla rosa York Lancaster di cui ci ha poi narrato la peculiare storia.

«Questa è una rosa damascena, rose ibride molto usate in profumeria. Questa particolare varietà prende il nome alle vicende storiche a cui è legate: la “Guerra delle due Rose”, quella fra le casate York e Lancaster combattuta 1455 – ‎1485‎ che diede vita alla dinastia dei Tudor.

Il fiore ha petali che tendono a virare fra il rosa e il bianco riprendendo i colori delle due rose nei simboli delle due casate in guerra, quella rossa dei Lancaster e quella bianca degli York. Per queste sue caratterisiche cromatiche questa rosa venne scelta come simbolo della riappacificazione delle due casate»

Una perfetta armonia fra arte e natura

Una perfetta armonia fra arte e natura

Questo articolo fa parte del numero 13 di Web Garden: in nome della Rosa

Un sabato assolato di maggio a Casa Lajolo, fra arte, gusto, sapori e odori: Dejeuner con l’arte, l’evento di Web Garden di maggio 2022.

In un sabato assolato di maggio – il 21 – presso la bellissima Casa Lajolo, villa settecentesca sulla collina di Piossasco (Torino), Web Garden ha inaugurato la mostra “Sculture segrete. Arte in giardino”, offrendo ai suoi associati una totale immersione nella natura e nei suoi prodotti, anche grazie al meraviglioso menu vegano dello chef Antonio Chiodi Latini, guru piemontese della cucina vegetale creativa.

Ospiti d’onore, le bellissime opere d’arte di Riccardo Cordero, Pietro D’Angelo, Margherita Grasselli, Paolo Spinoglio e Lucrezia Carrega, scelte assieme al curatore Ermanno Tedeschi e posizionate con sapienza e maestria nei tanti spazi del parco: nei prati incorniciati da aiuole di bossi, che danno vita a forme geometriche, e all’interno di un giardino segreto, nascosto da una parete di tassi.

Ecco allora apparire in tutta la loro grandezza il «Bolide meteorico», «L’oggetto celeste» e «La grande presenza» del maestro Cordero, reduce dall’inaugurazione di una sua opera alle Olimpiadi di Pechino. E ancora, i bambini ideati e creati con paper clip da Pietro D’Angelo: «L’osservatore di nuvole», «La piccola danzatrice» e «Il binocolo». Poco più in là, sedute sugli scalini di pietra, la scoperta di «Maria» e «Anita», le piccole bambine in terracotta di Margherita Grasselli, in compagnia di «Sara», accomodata su una poltrona di bosso naturale, con alcune amiche sedute a prendere il tè nel giardino segreto, guardando «Martina» sull’altalena.

A integrarsi perfettamente con lo spazio, «Il ballerino nero» di Paolo Spinoglio, che dal fondo del giardino apre agli occhi una via verso l’infinito, mentre il «Fidanzato» e il «Passa l’aereo» accompagnano fino all’ultima opera, «Ranocchia», che invita a entrare nell’orto giardino.

E cosa dire del barbagianni, dell’asino, del coniglio, della gazza ladra e dei tanti altri disegni di Lucrezia Carrega che decorano il giardino e lo rendono animato? Così belli da essere usati come etichetta dei vini della prestigiosa cantina Malabiala.

Posizionata sotto un antico nonché enorme cedro del Libano, capace di offrire agli ospiti un giusto riparo dal sole e di regalare un po’ di fresco, la lunga tavola dove si è svolta la déjeuner, da cui – assaggiando le varie squisitezze preparate dallo chef, come il giardinetto vegetale con bagnetti o l’insalata di asparagi con sarzet e limone, il risotto con zucchine e fiori di zucchina e la melanzana croccante con pomodoro e basilico – si sono ammirate tutte le opere presentate dagli artisti.

Ogni piatto è stato accompagnato da un vino delle cantine Malabaila, raccontato direttamente da Lucrezia Carrega, che nella sua doppia veste di produttrice e di artista ne ha spiegato ogni nota nonché la ragione degli abbinamenti con i suoi disegni.

Poco prima di assaggiare il dolce, una squisita composta di fragole con panna vegetale, l’amministratore delegato della società Domori, Lamberto Gancia – sponsor dell’evento assieme a Malabaila, Reale Mutua e all’impresa Coeri – ha raccontato con passione la filosofia della società e ha anticipato come si sarebbe svolta la degustazione del delizioso cioccolato.

La semplicità e l’allegria di tutti i commensali hanno completato il quadro d’insieme.

Avere la possibilità di conoscere e intrattenersi per un’intera giornata con gli artisti, chiedere cosa ha ispirato le loro opere, curiosare nei loro pensieri e poi aprirsi al dialogo con tutti i partecipanti all’evento, in un clima amicale, non è cosa banale ma quando l’operazione riesce l’emozione che si ricava  è meravigliosa.

La gentilezza dei padroni di casa, la vivacità degli artisti, l’allegria dei commensali, il tutto accompagnato dal profumo delle molteplici varietà di rose, peonie, iris, ortensie, ha completato la magia.

La giornata ha poi avuto un epilogo inaspettato e bellissimo. L’artista Margherita Grasselli ha regalato due delle sue incantevoli bambine di terracotta all’ospedale infantile Regina Margherita di Torino.

Foto di Simone Bonzano per Web Garden

La Rosa, una spia al servizio della vigna

La Rosa, una spia al servizio della vigna

Questo articolo fa parte del numero 13 di Web Garden: in nome della Rosa

La rosa e la vite, un connubio naturale dalle origini pragmatiche e antiche, molto più di un semplice vezzo del vignaiolo.

Dal Monferrato alle Langhe, dalla Champagne alla Borgogna, un vigneto non è un vigneto se non ha una rosa all’inizio di ogni filare. È solo un tocco di eleganza, un inno alla bellezza e al romanticismo, o ha una sua origine di pragmatismo contadino?

La rosa in vigna c’è sempre stata fin dal tempo dei Romani, ha solo cambiato la sua funzione. Un tempo, quando non esistevano i prodotti di sintesi per combattere le malattie tipiche della vite (Oidio, Peronospora, Mal dell’esca, ecc.), il contadino aveva a sua disposizione solo prodotti naturali: verderame, zolfo, poltiglia bordolese.

Ma poiché nella vita è meglio la prevenzione della cura, come già insegnava tra Sei e Settecento lo scienziato e medico visionario Bernardino Ramazzini, come sapeva il contadino quando intervenire prima che la vigna si ammalasse?

Piantava una rosa a ogni testata. Da sempre, la rosa contrae le malattie tipiche della vite una settimana in anticipo, cosicché il contadino, appena vedeva i suoi petali in sofferenza, interveniva e trattava. Era una sorta di Mata Hari o di Contessa di Castiglione, che con la loro bellezza erano spie formidabili.

Oggi nei vigneti si usano prodotti di sintesi (non in quelli biologici e biodinamici) che si danno preventivamente per risolvere tutti i problemi.

Così la rosa è diventata solo più motivo di raffinatezza e ornamento, e ha perso il suo ruolo di sentinella delle vigne.

Ma per il vignaiolo gentiluomo rimane pur sempre una coccola da regalare alla dama, come retaggio della nobile e centenaria tradizione di celebrare con un fiore la beltà femminile.

Foto di Marco Beck Peccoz per Web Garden

In nome della Rosa

In nome della Rosa

Questo articolo fa parte del numero 13 di Web Garden: in nome della Rosa

La rosa, il fiore di maggio, ci accompagna in un viaggio fra colori, storia, cultura e bellezza.

La prima declinazione latina già ne spiega le insidie. Semplice come una filastrocca – rosă, rosae, rosae; ingannevole come un trabocchetto: singolare o plurale, genitivo o dativo, nominativo o vocativo. Delle rosae è il contesto a dettare il significato, altrimenti chissà.

Così è la rosa, deliziosamente ambigua. Bianca d’innocenza e rossa di passione, rosa di amicizia e gialla di gelosia, ma anche di solarità. In nome della rosa si celano segreti: sub rosa dicta velata est, “ciò che è detto sotto la rosa è nascosto”, ed ecco perché sugli antichi confessionali si scolpivano rose, simbolo del vincolo sacro tra sacerdote e peccatore.

Dal silenzio delle chiese al fragore delle armi, in nome della rosa scorre il sangue della Storia. Marte, dio romano della guerra, nasce da una rosa. Ed è tra la rosa rossa dello stemma dei Lancaster e quella bianca degli York che, il 22 maggio di 567 anni fa, deflagra una delle più feroci lotte dinastiche dell’Inghilterra. Tre decenni di guerre, The Wars of the Roses; eserciti decimati, altezze reali assassinate. Alleanze, tradimenti, complotti.

Intanto, per Shakespeare, l’amore tra Romeo e Giulietta si consuma in nome della rosa, che «avrebbe lo stesso dolce profumo se fosse chiamata in qualsiasi altro modo». Per l’autrice settecentesca Barbot de Villeneuve la rosa è l’incantesimo malvagio che scandisce il tempo della Bestia: se non bacerà Belle prima che l’ultimo petalo tocchi terra, rimarrà animale per sempre (La Belle et la Bête).

Per Edmond Rostand il suo nome è il colore di un apostrofo, quello tra le parole “t’amo”(Cyrano de Bergerac). Per Lewis Carroll è l’ossessione sanguinaria della Regina di Cuori, che se per errore una rosa nasce bianca meglio tingerla subito di rosso, altrimenti “Tagliatele la testa!” (Alice nel Paese delle Meraviglie). La Regina capricciosa non sa che tingere i petali di una rosa è superfluo. Le 3.000 mila specie censite abbracciano l’intero spettro visibile all’occhio umano. La rosa accoglie tutti i colori del mondo, a eccezione del blu notte. La rosa blu non esiste in natura, nessuna varietà possiede il gene che ne produce il pigmento. E così è anche l’inafferrabile rosa nera, i cui petali sono in realtà di un viola scurissimo. Un inganno visivo.

Più antica dell’homo sapiens, che ha 300 mila anni o giù di lì, la rosa di anni ne ha 37 milioni e da sempre osserva gli umani dibattersi nelle proprie miserie, e li premia o li condanna secondo il significato con cui è evocata. Anna Peyron, ne Il romanzo della rosa (ADD Editore, 2020), chiama a testimoniare i fossili dell’Oligocene ritrovati in Oregon e Colorado. In un’epoca preistorica in cui il mare tocca il livello più basso nella storia della Terra, la rosa migra e si stabilisce lungo tutto l’emisfero settentrionale, per poi ricomparire milioni d’anni dopo nella mezzaluna fertile tra il Tigri e l’Eufrate. Gli antichi Egizi la coltivano; gli antichi Romani ci ornano le teste dei condottieri vittoriosi.

Nel Rinascimento dalla rosa nascono conserve, miele, sciroppi, profumi, olii essenziali. Poi la coltivazione si dirada. È Giuseppina Bonaparte, la discussa nobildonna che dalla Martinica francese sposa Napoleone e diventa imperatrice, a riportarla con prepotenza in Europa, nel suo ambizioso giardino di Malmaison, a Rueil, otto chilometri da Parigi. Ingorda di varietà esotiche come lo è di piaceri mondani, rilancia – come farebbe oggi un luxury brand – una passione botanica che dilaga nel mondo.

Da quel 1799 i petali bianchi accompagnano la trepidazione della sposa; quelli rossi le acrobazie erotiche degli amanti, per poi scivolare dalle lenzuola nella vasca profumata della donna vanitosa. La celebrano artisti, poeti, musicisti. Versi sublimi e rime banali, perché la rosa è democratica e trasversale. Simone Cristicchi vince Sanremo 2007 con una rosa, metafora della prigionìa nei manicomi (Ti regalerò una rosa). Luigi Tenco, 40 anni esatti prima, a Sanremo si suicida come «atto di protesta contro un pubblico che manda Io, tu e le rose in finale». Nella prigione di Alcatraz, baia di San Francisco, dal 1869 la rosa è il solo svago per i detenuti militari, che la coltivano con perseveranza. Dal 1933 il compito passa ai prigionieri civili, e se il carcere chiude il 21 marzo 1963, oggi resta la Terrazza delle Rose: strappata alla roccia un centimetro dopo l’altro, visitata ogni anno da migliaia di persone.

Negli anni Ottanta, nella Milano-da-bere, alle escort si chiede “quante rose vuoi”? Ogni rosa, centomila lire. Visione profana, devozione sacra: i grani del rosario (rosārium, lett.“rosaio”), che nel XIII secolo sostituiscono le ghirlande di rose per rendere omaggio alla Vergine; la sensualità del tango, con la rosa tra i denti del ballerino che passa nella bocca della sua donna – si spera senza spine.

Juliet rose closeup

Imprevedibile e multiforme, la rosa può avere 5 petali o arrivare a 60. Vale 3 milioni di dollari, se è l’ibrido creato da David Austin in 15 anni di dedizione. Oppure pochi centesimi, se è quella appoggiata dal ragazzino indiano sul tavolo di un ristorante – recisa e congelata dall’altra parte del mondo; effimera promessa d’innamoramento, o più facilmente di una notte soltanto: che se poi sono rose, alla fine fioriranno.