Andrea Corneo: il signore delle Camelie

Andrea Corneo: il signore delle Camelie

Questo articolo fa parte del numero 17 di Web Garden: Il Giardino dei Semplici

Una lunga tradizione di famiglia lega Andrea Corneo a Villa Anelli e al suo meraviglioso giardino. Nato e cresciuto proprio lì, in quella splendida proprietà affacciata sul Lago Maggiore, Andrea Corneo è uno dei massimi esperti italiani di camelie.

Appassionato botanico, è anche il presidente della Società Italiana della Camelia.ato il fiore più grande al mondo. 

Web Garden: di cosa si occupa la società che preside?

Andrea Corneo: la Società Italiana della Camelia nasce nel 1965 a Cannero Riviera (Verbano-Cusio-Ossola) per iniziativa dell’ingegner Antonio Sevesi, a seguito di una bellissima mostra di fiori recisi che si tenne qualche mese prima in quel luogo. Nel 2000 la sede venne spostata a Verbania. Ha come scopo la ricerca storica e il reperimento di antiche varietà, oltre a un approfondimento tecnico e scientifico su queste piante, ma ha anche l’obiettivo di diffondere e fare riscoprire la loro bellezza. Infatti, se fino all’Ottocento questo fiore aveva avuto un incredibile successo, come dimostrano i tanti quadri che lo ritraggono e i romanzi che lo citano, nel Novecento ha subìto un lento e inarrestabile declino.

Che cosa fanno i soci ?

Abbiamo soci italiani e stranieri che, essendo collezionisti, selezionano nuove varietà che vengono ibridate da semi diversi o anche dallo stesso seme. Dopo di ciò, chiedono alla Società di pubblicare sulla sua rivista le nuove varietà. Oggi esistono circa 25mila varietà coltivate (cultivar)di camelie, all’interno di circa 250 specie botaniche.

La camelia è anche protagonista di mostre e concorsi?

In America e Inghilterra esistono concorsi di fiori recisi di camelie. In Italia, in occasione del congresso internazionale organizzato ogni due anni dalla International Camelia Society, ci sono dei “pre” e dei “post tour” durante i quali visitiamo diversi giardini con importanti collezioni di camelie. In tali occasioni si organizzano anche mostre e altri eventi dedicati a questo fiore.

Quando è stato il primo congresso?

A Stresa nel 1972. Da allora è sempre stato organizzato ogni due anni, a eccezione del 2020 a causa del Covid. È un appuntamento molto sentito dagli appassionati. Il prossimo si terrà a Verbania nel 2023.

È difficile coltivare la pianta di camelia?

Assolutamente no, ma servono alcune accortezze. Appartenendo alle piante acidofile, occorre che il terreno sia acido, che la pianta non sia esposta in pieno sole e che la terra sia sempre umida ma non troppo bagnata, per evitare che le radici marciscano. Se coltivata in vaso, bisogna evitare il ristagno d’acqua sul fondo.

Passiamo a Villa Anelli, che cosa ci racconta?

È un giardino storico di metà Ottocento che si affaccia sul lago. Essendo su una posizione declive è stato pensato con diversi terrazzamenti, tali da consentire di percorrerlo. Ci sono molti esemplari di camelie. Alcune risalgono alla sua nascita, una ventina; tuttavia la grande coltivazione di questa pianta inizia negli anni Sessanta e Settanta, a cura di Antonio Sevesi, uomo importante nella vita di mia nonna che, con arte e passione, si dedicò al giardino. Oggi il parco della villa conta oltre 450 varietà di camelie. Alcune piante raggiungono i 6-7 metri d’altezza.

Ha una camelia preferita?

No, sono tutte splendide. A seconda dell’anno e della stagione, però, ce n’è sempre una che mi dà più soddisfazione di altre per come fiorisce.

Esiste un colore che fa da filo conduttore al giardino di Villa Anelli?

No, ci sono molti colori, che vanno dal bianco al rosso al rosa.

Qual è un colore impossibile per le camelie?

Non esistono camelie blu, mentre per quelle gialle ci stiamo lavorando. Quest’ultime sono molto particolari e delicate. Noi le abbiamo, ma le teniamo in serra a causa della loro fragilità. Una nuova specie di camelia è la Changii , che è stata ibridata con la Japonica per ottenere una fioritura della pianta anche in estate.

La fioritura della camelia non è in primavera?

Normalmente si hanno camelie a fioritura autunnale o primaverile. Ecco perché stiamo provando a coltivare questa nuova specie, così da avere anche una fioritura estiva.

Ci racconti una curiosità?

Poiché da ogni seme nasce una nuova camelia, abbiamo l’usanza che quando arriva una camelia particolare la si chiami con un nome di famiglia. Quindi c’è una camelia che ha il nome di mia nonna, Alessandra Anelli, e di mia madre Giovanna Barbara, entrambe dedicatale da Antonio Sevesi, di mia sorella Benedetta Corneo e, ovviamente, di mia moglie, Orsola Poggi dedicate da me.

Api, sentinelle dell’ambiente: l’intervista a Francesco Collura

Api, sentinelle dell’ambiente: l’intervista a Francesco Collura

Questo articolo fa parte del numero 16 di Web Garden: Il linguaggio della Natura: le api.

Web Garden ha avuto l’opportunità di intervistare Francesco Collura che, oltre ad essere un esperto apicoltore, è anche membro del Consiglio direttivo dell’Associazione Italiana Apiterapia, che studia oltre alle proprietà del miele per il benessere della persona, la possibilità di utilizzare le api per monitorare la qualità dell’ambiente.

Web Garden: Francesco come ha avuto inizio questa sua avventura ?

Francesco Collura: Fin da bambino ero affascinato dal mondo delle api. Il mio primo apiario lo realizzai a vent’anni ma solo 8 anni fa decisi di ricominciare da capo con la mia vita, trasformando una passione in un mestiere.

All’epoca lavoravo come funzionario di banca mi dimisi e aprii una azienda apistica a Cocconato d’Asti.

Tuttavia Lei non si limita a produrre e a vendere miele, vero ?

Essendo membro del Consiglio direttivo dell’Associazione Apiterapia tengo numerosi corsi sulle proprietà benefiche che hanno i prodotti dell’alveare per il benessere della persona con il supporto del dottor Aristide Colonna medico chirurgo e presidente dell’Associazione che ha lo scopo di sviluppare ricerche scientifiche. Il mio contributo è principalmente quello di esperto apistico.

Oltre che al miele la mia attenzione si è orientata soprattutto allo studio del biomonitoraggio ambientale.

Come ha avuto inizio questo studio?

Quasi per caso devo dire.

Deve sapere che a Cocconato d’Asti esiste una storica cava di gesso denominata Gesso Nosei . La cava è gestita da Saint-Gobain Italia, azienda del gruppo francese Saint-Gobain da sempre attento all’ambiente e specializzata nell’estrazione di gesso e nella produzione di cartongesso e intonaci speciali per il green building.

La cava di Gesso , certificata ambiente ISO 14001, esegue continui monitoraggi sugli indicatori ambientali.

Nel 2015 mi chiamò l’allora direttore per iniziare una collaborazione di sperimentazione su un nuovo metodo di rilevazione delle polveri diffuse, al fine di monitorare e analizzare la concentrazione dei solfati nell’ambiente all’esterno del perimetro dell’area. Il mio metodo di sperimentazione ha consentito alla società di dimostrare che la cava non produce effetti contrari alla salute anzi è un valore aggiunto per il territorio.

Quindi le api di Cocconato misurano le polveri diffuse nell’aria delle cave?

Assolutamente si, ma non solo Infatti, attuare un progetto di biomonitoraggio significa cercare di fornire una descrizione del luogo scelto dal punto di vista dei possibili agenti inquinanti. Il biomonitoraggio può essere eseguito partendo da matrici diverse e la ricerca può allargarsi a tutta una serie di inquinanti.

Possiamo dunque concludere che le api sono ottimi rilevatori ecologici.
Sono proprio le realtà industriali  ad essere maggiormente interessate a questo tipo di monitoraggio: le api ci possono dire se le politiche ambientali, che ormai sempre più aziende mettono in atto sono efficaci, osservando lo stato di benessere delle api, la qualità dei prodotti dell’alveare e l’eventuale presenza di inquinanti.

È stato complicato creare un progetto dì biomonitoraggio?

Inizialmente ho dovuto studiare chimica e tutto quello che è stato pubblicato da diversi ricercatori sull’argomento. Poi dopo avere preso contatto con diversi Atenei , ho infine creato un mio protocollo di biomonitoraggio ambientale che ha ottenuto la validazione scientifica dell’Università degli studi di Torino, Dipartimenti di Scienze Agrarie, Forestali e Alimentari DISAFA di Grugliasco grazie soprattutto al prezioso contributo del professor Marco Porporato del dipartimento DISAFA.

Qual è la sua ambizione?

Quella di creare una società specializzata nel biomonitoraggio ambientale con strumenti alternativi ai classici di monitoraggio.  Proporre questo strumento a tutte quelle società che attente all’ambiente lo vogliono comunicare al territorio con un linguaggio semplice e alternativo. Le Api usano un linguaggio universale comprensibile a chiunque.

Oggi gestisco sette progetti di bio monitoraggio per grandi aziende. Il mio è un progetto soprattutto di comunicazione ma supportato da evidenze scientifiche e con un protocollo validato.

Mi spiego meglio. Le aziende hanno tutto l’interesse a dimostrare che usano tutte le accortezze per tutelare l’ambiente ma a volte diventa difficile comunicarlo al territorio e alla cittadinanza. Quale metodo migliore che utilizzare a tale fine le api che come detto usano un linguaggio comprensibile a tutti “Ubi Apis Ibi Salus” dove le api lì la salute diceva Plinio il Vecchio già 2000 anni fa. Se si pensa che un solo chilo di miele è composto da oltre 10 milioni di micro prelievi, quella goccia di miele che viene analizzata, risulta veramente rappresentativa del territorio circostante la stazione di biomonitoraggio e di conseguenza si riesce ad avere un resoconto preciso dello stato di salute dell’ambiente.

Le api di un alveare infatti coprono 7-8 kmq e al giorno possono effettuare migliaia di viaggi toccando milioni di fiori. La capillarità e il raggio di azione delle api sono tali che nessun altro strumento di analisi del territorio è minimamente confrontabile.

Le matrici che possono essere usate oltre al miele sono il polline, la propoli, il pane d’api e le api stesse che con il loro corpo peloso trattengono elementi poi analizzabili. Tramite l’analisi di queste matrici è possibile scoprire la presenza nell’ambiente di metalli pesanti, di pesticidi, di radionuclidi ecc. ma soprattutto la loro non presenza consente di dimostrare l’attenzione che una azienda ha per il territorio e l’ambiente.

Stella Boglione, una contadina in riva al mare

Stella Boglione, una contadina in riva al mare

Questo articolo fa parte del numero 15 di Web Garden: Il linguaggio della Natura: le api.

Quando Stella e Marco Boglione decidono di mettere su famiglia è l’inizio del nuovo millennio, «il 1999 o giù di lì ». Il loro desiderio è una casa nel verde, magari sulla collina torinese, ma niente da fare. BasicNet, il gruppo industriale che Marco Boglione ha fondato appena quattro anni prima, ha bisogno del suo capitano. Il lavoro chiama.

Meglio vivere nella Foresteria sopra gli uffici e trasformare il tetto in un giardino. Stella, un pollice che più verde non si può e una tenacia da kamikaze (anche se è di origine cinese), realizza un primo orto urbano. In Italia non è ancora diffusa la moda green e, in Svezia, Greta porta ancora il pannolone. In tempi non sospetti, quando l’agricoltura domestica non è mainstream, Stella è una pioniera. Alle sei di mattina è avvistata sul roof garden con tuta e stivali di gomma (a marchio Superga, ça va…) a sradicare erbacce e piantare sementi.

Con l’orto arriva il pollaio, perché per Marco Boglione «il vero lusso è un uovo fresco al cucchiaio ogni mattina», e con il pollaio generazioni di pulcini che diventano galline e covano altre uova. Nel 2018 le prime tre arnie, e quindi il miele, dopo gli esperimenti con gli insetti antagonisti – che Stella utilizza su piante, fiori e verdure per evitare qualunque forma di guerra chimica ai parassiti – e una curiosa battaglia domestica per la «liberazione dei bonsai», trasformati in piante di notevoli dimensioni dentro vasi altrettanto imponenti.

Poi, la svolta: i Boglione acquistano l’isola sarda di Culuccia e Stella inizia ad amministrare l’omonima azienda agricola. La passione si trasforma in impresa, «anche se – assicura lei – più che imprenditrice sono una lavoratrice agricola. Per la maggior parte del tempo faccio la contadina. Non delego: amo tutto ciò che mi permette di stare in contatto con la natura, anche se devo alzarmi all’alba. D’altronde, la terra si bagna prima del sorgere del sole, oppure dopo il tramonto».

Mentre la intervisto al cellulare sulla sua lovestory con le api, lei attacca il viva-voce «perché sto pulendo 50 chili di bacche di ginepro con cui facciamo il gin». Nell’azienda agricola Culuccia, oltre al miele millefiori e a quello di melata, si producono ostriche, spumante Metodo Champenois e Vermentino Docg, e anche il più tradizionale tra i liquori sardi: il Mirto Bastianino, «dal nome del nostro primo asinello, che è un po’ la mascotte dell’isola».

Nell’azienda azienda agricola Culuccia, Stella Boglione produce miele millefiori, miele di melata, gin, mirto, vermentino Docg, spumante Metodo Champenois e ostriche

Nel resto della giornata a Stella non mancano altri impegni, compresa la parte burocratica di questo lavoro, «un aspetto che detesto, anche se capisco sia necessario».

Intanto sull’isola di Culuccia, nota anche come Isola delle Vacche (che peraltro stanno ritornando, selvatiche, ricominciando a riprodursi dopo anni di estinzione, ndr), è nato un Osservatorio naturalistico e un piano di turismo ecosostenibile che va consolidandosi di stagione in stagione, perché «il progetto Culuccia è creare prodotti di altissima qualità nel rispetto della Natura, oltre a rivalorizzare quest’isola dal punto di vista agricolo e turistico».

Non è raro, d’estate, vedere Stella Boglione dietro il bancone del bar Macchiamala, sull’omonima spiaggia, nei panni di cuoca-cameriera-barista. Anche se il suo più evidente successo è un vermentino che nasce – letteralmente – dal mare.

Racconta Stella: «Dal 1923 al 1996 l’unico abitante dell’isola di Culuccia fu Angelo Sanna, conosciuto come “Zio Agnuleddu”, che venne a viverci dopo aver lasciato l’ufficio postale di Santa Teresa di Gallura. Solo come un eremita, senza acqua corrente né elettricità, con l’unica compagnia di un cane e una cavalla, allevava maiali, capretti e mucche».

Negli anni Cinquanta, “Zio Agnuleddu” piantò la Vigna della Puntata (sulla punta dell’isola, ndr) con vitigni autoctoni galluresi «che abbiamo ripreso tre anni fa». Nella prima vendemmia, il 1° settembre dell’anno scorso, sono stati raccolti poco più di 2mila chili «600 dei quali sono stati messi a riposare in mare, come facevano gli Antichi Greci». Poco dopo, con l’enologo Andrea Pala (Miglior Giovane Enologo italiano 2021, ndr) Stella ha prodotto il vermentino Donna Ma’, dal nome della figlia Maria, che ha già vinto diversi premi. E, contemporaneamente, il Donna Ste’, che ha subito meritato il Docg.

Questo è accaduto, in poco più di 20 anni, alla donna che da ragazza organizzava eventi per l’Ambrosetti, che da bambina «volevo fare l’agente segreto come Nikita» e che «se tornassi indietro forse farei Medicina». Tutto attraverso un processo «molto lento e inatteso, per quanto piacevole», perché «una delle fortune più grandi è trasformare una passione nel lavoro della vita».

BASTIANINO L’asino Bastianino, mascotte dell’isola sarda di Culuccia, che dà il nome al mirto prodotto da Stella Boglione
Intervista a Stella Boglione: “E dire che ho paura delle api”

Intervista a Stella Boglione: “E dire che ho paura delle api”

Questo articolo fa parte del numero 15 di Web Garden: Il linguaggio della Natura: le api.

La lovestory tra Stella Boglione e le api inizia su un tetto: l’ex lastrico solare di una storica azienda tessile torinese – il MCT, fondato nel 1916 – che oggi è il quartier generale di BasicNet, gruppo industriale quotato in Borsa e proprietario dei marchi Kappa, Robe di Kappa, Jesus Jeans, K-Way, Superga, Briko e Sebago.

In questa ex fabbrica che oggi si chiama BasicVillage, dove abita assieme al marito Marco, fondatore del Gruppo, nell’aprile 2018 arrivano tre arnie urbane, «i miei primi passi da apicultrice». Poche rispetto alle 140 che si trovano sull’isola sarda di Culuccia, acquistata dai Boglione nel 2017 e sede dell’omonima azienda agricola di cui Stella è amministratore.

Perché tre arnie?

«Tre è il numero minimo consigliabile con cui iniziare l’avventura delle api, perché l’apicultore può intervenire aiutando l’eventuale arnia più debole con quella più forte. Se in un’arnia, ad esempio, viene a mancare la regina, si possono prendere le covate dalle arnie più robuste che aiutano la sopravvivenza di quella più fragile».

Come nasce la sua passione per le api?

«Intanto va detto che – ironia della sorte – io ho paura delle api, come di qualunque altro insetto che abbia un volo irregolare e non prevedibile, anche se è una paura infondata: le api sono creature docili e pungono solo se minacciate. È iniziata per sfida. Lo stesso meccanismo che mi spinge a percorrere un ponte tibetano nonostante io soffra di vertigini».

Tra tante sfide, perché proprio le api?

«Un amico di mio marito, che abita in collina, quando è andato in pensione ha iniziato a lavorare con le api. Ogni volta che veniva a trovarci mi portava un barattolo di miele. Così, un giorno, ho pensato: quasi quasi…».

Ho letto che l’alveare è un super-organismo. Approfondiamo?

«Un super-organismo è un miracolo di intelligenza che, misteriosamente, è privo di “testa”. È una “civiltà” senza coscienza e ragione: solo puro, millenario istinto. Pur essendo composto da numerosi individui, opera come un organismo unico. Ciascuno, fin dalla nascita, sa esattamente che cosa fare e lo fa con precisione millimetrica. Ognuno ha un compito definito, nulla è lasciato al caso, perché le api sono insetti “eusociali”: se fossero essere umani, potremmo dire che hanno più a cuore il bene comune di quello individuale. Sono un meccanismo perfetto che si muove come un tutt’uno».

Che cosa insegna l’universo delle api?

«A lavorare duro. Osservando un alveare si comprende il senso dell’organizzazione, il sacrificio del singolo per la collettività, la meticolosità e la dedizione nello svolgere il proprio compito. S’impara a non essere pressapochisti, perché dal ruolo di ciascuno dipende la sorte dell’intero alveare. Queste cose le api le sanno senza che nessuno gliele insegni: è un imprinting antichissimo. Nel loro aspetto attuale, esistono sulla Terra da 4 milioni di anni».

Le 140 arnie posizionate da Stella Boglione sull’isola sarda di Culuccia

Com’è la sua vita da apicultrice?

«Il mondo delle api è per me una magia. Mi capita di rimanere incantata a osservare le bottinatrici, capaci di “visitare” fino a 2mila fiori al giorno. Oppure a emozionarmi per la nascita di una nuova operaia. Ho ancora i brividi al ricordo della prima volta in cui sono riuscita a distinguere, in mezzo al ronzio dell’alveare, il canto della regina vergine».

Passando ad argomenti più prosaici, quanto miele produce ogni anno?

«A Torino, 30 chili per arnia. In Sardegna, dove la stagione è più breve e siccitosa, si arriva a 10 chili. Va però detto che io faccio apicultura stanziale: non rincorro le fioriture spostando le arnie. Con il nomadismo si produce molto più miele».

Di che qualità parliamo?

«Ogni anno è una scommessa: tutto dipende dalle temperature e dalle piogge. A Torino, l’anno scorso l’apiario urbano non aveva prodotto l’acacia perché le forti piogge ne avevano rovinato la fioritura. Quest’anno, invece, lo stesso apiario ha prodotto l’acacia e anche un ottimo millefiori con punta di tiglio. L’apiario sardo, l’anno scorso ha prodotto ad aprile un millefiori con punta di lavanda, a metà stagione un millefiori con punta di cardo e, alla fine, la melata. Quest’anno a Culuccia, vista la grande siccità, la melata è arrivata prima».

I profani pensano che la melata c’entri con le mele: invece si tratta di un miele particolare, raffinatissimo, che oltre a essere delizioso ha anche proprietà antisettiche, antibatteriche e rafforza memoria e concentrazione. Ci racconta?

«La melata è una sostanza zuccherina secreta da piccoli insetti che si nutrono della linfa degli alberi. Dalla linfa, gli insetti eliminano l’acqua e gli zuccheri in eccesso, dando vita a un nutrimento ricco di sali minerali. Una volta raccolta questa sostanza preziosa, le api la introducono nell’alveare e la trasformano in miele».

Oltre al miele, che cos’altro è prodotto nelle arnie?

«Cera, naturalmente. E poi polline, propoli e la pappa reale, che però io non faccio ancora».

È vero che è la pappa reale a trasformare un’ape in regina?

«Le api sono di due tipi: o maschio o femmina. Il maschio, il cosiddetto fuco, nasce da un uovo non fecondato; l’ape operaia da un uovo fecondato. La differenza tra l’ape operaia e la regina è il nutrimento, che nella cella reale è la pappa reale, mentre nelle altre celle è un “cibo” meno nutriente. Quando le uova sono depositate nelle celle, le ceraiole le chiudono con un velo di cera. Poi la larva si sviluppa e, rompendo l’opercolo, sfarfalla l’ape».

Che cosa consiglia un giovane che vuole diventare apicultore?

«Dedizione, pazienza e tanto spirito di sacrificio, come del resto per qualunque altro mestiere».

Chiudiamo con un giochino alla Proust: se fosse un’ape, quale ape sarebbe?

«Un’operaia. Benché abbia una vita brevissima, tra le 4 e le 6 settimane, ricopre ogni ruolo. Quando nasce fa la pulitrice per due giorni, poi passa ad altre mansioni: nutrice, cortigiana, ceraiola, immagazzinatrice, guardiana, ventilatrice. Infine diventa bottinatrice. Una vita breve e faticosa, però intensa».

Le prime tre arnie di Stella Boglione sul roof garden del Basic Village di Torino

Regina no?

«Nonostante il mito della regina, e il fatto che viva più a lungo, per me è una schiava del sistema: se non svolge correttamente il proprio compito, quel super-organismo che è l’alveare la elimina e la sostituisce. Entro i primi 20 giorni di vita deve fare il volo nuziale, durante il quale si accoppia con un discreto numero di fuchi. Trattiene il seme all’interno di un organo raccoglitore, la spermateca, quindi va di cella in cella a deporre le uova, scegliendo se fecondarle o no secondo la grandezza delle celle».

E il fuco?

«Serve solo a fecondare la regina, non ha nemmeno il pungiglione. Muore subito dopo l’accoppiamento e, se non riesce nel suo compito, torna nell’arnia e ci resta per il resto della stagione. Infine, vivo o morto, viene buttato fuori».

Territorio e sostenibilità: intervista a Luca Battaglini

Territorio e sostenibilità: intervista a Luca Battaglini

Questo articolo fa parte del numero 14 di Web Garden: Immaginare. Creare. Recuperare

Vigneti estremi dal mondo: visione, coraggio e dedizione rendono ancora una volta – e sempre – possibile l’impossibile.

Per il numero di giugno, Web Garden ha scelto di intervistare Luca Battaglini, agronomo di formazione, professore ordinario in Scienze e tecnologie animali presso il Dipartimento di Scienze agrarie, forestali e alimentari dell’Università degli Studi di Torino, nonché segretario della bellissima Accademia dell’Agricoltura, che si occupa di zootecnia, con particolare riguardo ai territori svantaggiati quali l’alta collina o la montagna, di sostenibilità degli  allevamenti e delle loro relazioni con gli ecosistemi.

Web Garden approfondisce, qui, l’aspetto importantissimo del recupero del territorio in zone precollinari e collinari che, nel tempo, sono state abbandonate a loro stesse.

Web Garden: professore come state procedendo nel recupero di questi territori?

Luca Battaglini: una volta, sulla nostra collina erano presenti molti vigneti che sono stati progressivamente abbandonati nella seconda metà del secolo scorso. Questo ha provocato un cambiamento radicale del paesaggio. Le realtà rurali, in qualche modo capillari anche per il territorio torinese, sono del tutto scomparse.

Infatti, oltre ai vigneti,  un tempo trovavamo orti, frutteti e allevamenti.

L’abbandono della pre-collina e della collina ha comportato il progredire del cosiddetto bosco di invasione, vale a dire una proliferazione di piante invasive, a scapito delle attività produttive. Vi è poi da sottolineare come i vigneti abbandonati abbiano contribuito a trasmettere malattie ad altri vitigni presenti in altre zone ancora coltivate, in quanto ambienti ospitali per alcuni insetti vettori ideali per la proliferazione di patologie come la Flavescenza dorata

Professore, di che cosa si occupa principalmente il Dipartimento di scienze agrarie?

Il nome corretto è Dipartimento di Scienze agrarie, forestali e alimentari e, tra le sue missioni, vi è anche quella di interessarsi al recupero di territori abbandonati prossimi alla città.

Quali sono stati gli ultimi progetti che avete sostenuto?

Significativo è stato il recupero di alcune porzioni del territorio di Castagneto Po: trattandosi di realtà particolarmente abbandonate ho ritenuto di appoggiare un progetto nato dall’idea di un allevatore Martino Patti, con dottorato in Germanistica alla Normale di Pisa, che nonostante la formazione umanistica, aveva immaginato e desiderato realizzare un allevamento di capre per contribuire al recupero del territorio collinare torinese.

È passato quasi un decennio e questo territorio, che si stava chiudendo, si è aperto rinascendo.

Le capre che Martino Patti ha deciso di allevare sono di razza Camosciata, ad indirizzo da latte, pertanto con una produzione interamente trasformata in formaggi puri di capra. Cascina Badin è un’azienda familiare che affronta il mercato con una dimensione eco-friendly, proponendo prodotti di eccellenza gastronomica.

Un altro esempio che mi viene in mente è quello relativo alla collina nei pressi di Chivasso. A Rivalba esiste un’azienda che si chiama Parva Domus, con allevamento di suini semi bradi, animali che vivono liberi ma ben gestiti nel bosco. L’iniziativa era già partita quando, come Dipartimento, la intercettammo per iniziative di ricerca sulla sostenibilità degli allevamenti suinicoli: in questo modo siamo riusciti a veicolarla in un più ampio progetto PSR 2014-2020, denominato Food for Forest, finanziato dalla Regione Piemonte.

Di che cosa si tratta?

Dell’impiego del pascolamento suino in bosco al servizio dell’attività selvicolturale. L’idea è quella di migliorare il bosco; bisogna tenere sempre a mente che parliamo di boschi abbandonati e degradati.

Oltre a mantenere il bosco, questa iniziativa ha dato vita a una figura nuova, il selvipastore, che in questo caso è un allevatore di suini con la funzione di controllare la mandria di maiali nel bosco appartenenti a razze in via di estinzione, quali ad esempio “il nero di Parma” . Grazie a questo allevamento, attraverso un sistema di recinzioni, si spingono i maiali a consumare piante invasive quali edere, robinia, rovi e per l’appunto la vite vergine, responsabile della proliferazione dell’insetto-vettore di una grave patologia della vite coltivata. L’eliminazione delle piante invasive consente peraltro di ossigenare il bosco, migliorarne le caratteristiche e di preservare la flora.

I suini di Parva Domus consentono la trasformazione in apprezzati salumi e insaccati, ottenuti anche con ricette che non prevedono l’uso di additivi, rispettando antiche tecnologie.

Su quale iniziativa si sta orientando per il prossimo futuro?

Un progetto che sto impostando, in collaborazione con colleghi del mio Dipartimento che si interessano di gestione e valorizzazione di Parchi storici, riguarda il parco del Castello di Moncalieri, recentemente acquistato dalla Città.

L’idea è recuperare questo straordinario ambiente riaprendo vecchi sentieri, selezionando le piante da conservare e quelle da eliminare per consentire al bosco di rigenerarsi, riappropriandosi di superfici aperte e radure, anche immaginando la prossima introduzione di un gregge di pecore di razze locali per mantenere al meglio le aree recuperate dal degrado e dall’abbandono e favorire la biodiversità.

Foto di Dino Genovese
Foto di Luca Battaglini


Il roseto comunale di Roma

Il roseto comunale di Roma

Questo articolo fa parte del numero 13 di Web Garden: in nome della Rosa

Il Roseto di Roma Capitale, un tesoro cittadino e nazionale nel cuore della Città eterna con più di 1100 varietà di Rose… e qualche curiosità!

A Roma, ai piedi dell’Avventino, si trova il Roseto Comunale. Un tesoro cittadino nel cuore della Città eterna, un roseto che ospita più di circa 1.100 varietà di rose provenienti da tutto il mondo, persino dalla Cina e dalla Mongolia. Fra le più curiose, la Rosa Chinensis Virdiflora, dai petali di color verde, la Rosa Chinensis Mutabilis, che cambia colore con il passare dei giorni e la Rosa Foetida, una rosa maleodorante.

Nel visitarlo per Web Garden abbiamo avuto il piacere di incontrare il signor Antonello, il responsabile del Roseto di Roma Capitale, e abbiamo approfittato della sua cortesia e professionalità per farci raccontare la storia di questo magnifico giardino e su quale, fra le tante rose che avevamo davanti, meritava, secondo lui, concentrare la nostra attenzione.


« Ci troviamo all’Aventino, precisamente dove, fra il 1645 al 1934 sorgeva “l’Orto degli Ebrei” e il vecchio cimitero della comunità ebraica di Roma. Ai tempi, il cimitero, lambiva il Circo Massimo dalla Bocca della Verità fino all’attuale sede della FAO e l’attuale fermata della metropolitana. Nel 1934, con il nuovo piano regolatore, il Comune decise di dismettere il cimitero liberando lo spazio per l’attuale Via del Circo Massimo.

Il cimitero venne così spostato nel comprensorio del cimitero monumentale del Verano e per anni questa zona rimase incolta, fino agli anni 50 quando si decise di dare vita all’attuale Roseto.

In realtà a Roma esisteva già un roseto comunale, situato però sul Colle Oppio dal 1932 al 1939, ma distrutto durante gli anni della guerra. Quando nel ’50 il Comune decise di riportare in vita il roseto, la scelta caddè proprio su quest’area grazie anche alla collaborazione della comunità ebraica. »

Occorre sottolineare la particolarità della struttura del roseto. Infatti, per ricordare l’antica destinazione cimiteriale e in accordo con la comunità, i viali interni del roseto vennero progettati in modo da riprendere la forma del candelabro ebraico a sette bracci, il « Menorah».

Gli abbiano chiesto di parlare di una rosa in particolare e Antonello ci porta davanti alla rosa York Lancaster di cui ci ha poi narrato la peculiare storia.

«Questa è una rosa damascena, rose ibride molto usate in profumeria. Questa particolare varietà prende il nome alle vicende storiche a cui è legate: la “Guerra delle due Rose”, quella fra le casate York e Lancaster combattuta 1455 – ‎1485‎ che diede vita alla dinastia dei Tudor.

Il fiore ha petali che tendono a virare fra il rosa e il bianco riprendendo i colori delle due rose nei simboli delle due casate in guerra, quella rossa dei Lancaster e quella bianca degli York. Per queste sue caratterisiche cromatiche questa rosa venne scelta come simbolo della riappacificazione delle due casate»