La botanica fantastica e i vegani nel Medioevo

La botanica fantastica e i vegani nel Medioevo

Questo articolo fa parte del numero 19 di Web Garden: La Botanica Fantastica

Nella sezione Beinecke dedicata ai codici rari, al numero d’inventario MS 408, la Biblioteca dell’Università di Yale custodisce «il libro più misterioso del mondo». Nessuno è ancora riuscito a decifrarlo, e a Yale i sapienti non mancano. Il Manoscritto Voynich – questo il suo nome – è il testo più celebre e oscuro di Botanica Fantastica, ma non l’unico.

Redatto su pergamena di vitello tra il 1404 e il 1438, ha acceso la fantasia di scrittori, filologi e complottisti, ed è stato protagonista in un episodio del fumetto italiano Martin Mystère (1982). Nessuna ipotesi o trama, però, ha mai sciolto l’enigma dei 113 disegni di piante sconosciute illustrate a colori nel codice, né delle loro descrizioni, annotate in un idioma che non appartiene ad alcun sistema alfabetico a oggi classificato. Ci sono radici e infiorescenze che, s’ipotizza, fossero materia ghiotta per gli alchimisti – mestiere molto in voga nel Medioevo – ma dove crescessero e a cosa servissero, chissà.

Come non bastassero le 60.065 specie di piante reali censite dalla Botanic Gardens and Plant Conservation, o le 391mila varietà calcolate nel mondo dai ricercatori britannici dei Royal Botanic Gardens, la tradizione delle piante immaginarie, mai catalogate in un vero erbario, è antica e corposa.

Nel 1330, nella relazione di un viaggio in Oriente, frate Odorico da Pordenone descrive una pianta che, al posto del fiore, genera un agnello. L’animale se ne sta lì, in punta allo stelo come uno stilita sulla colonna, attaccato a un cordone ombelicale flessibile che gli permette di chinare il muso a terra e nutrirsi d’erba. Si chiama Barometz e si trova già in Erodoto (442 a.C.), Theophrastus (306 a.C.) e Plinio il Vecchio (77 d.C), mentre nel Talmud compare con il nome di Jeduah. Pochi anni dopo, lo scrittore-viaggiatore John Mandeville ne conferma l’esistenza (1355) e se ne nutre con gusto perché «la carne sa di pesce e il sangue di miele».

L’Agnello vegetale di Tartaria – dal nome arcaico della regione dell’Asia dove se ne attestava la presenza – diventa così famoso che chiunque passi tra il Mar Caspio e gli Urali ne incontra uno: il diplomatico austriaco Sigismund von Herberstein (1549), il cartografo francese Guillaume Postel (1552), lo scienziato napoletano Giambattista Della Porta (1591), il poeta ugonotto Guillaume de Salluste Du Bartas (1578).   

La cultura occidentale risponde per le rime. Non sia mai che solo l’Oriente produca meraviglie. Nel 1188, l’ecclesiastico gallese Giraldus Cambrensis s’imbatte in un albero, tipico delle coste irlandesi, da cui germogliano anatre. Pochi anni dopo, le Bernacae o Anatre Vegetali d’Irlanda vengono descritte anche dal frate domenicano Vincent de Beauvais. Il mondo religioso è deliziato. Le Bernacae iniziano a spuntare ovunque: in quanto vegetali, si possono mangiare anche in Quaresima. Dirime la questione papa Innocenzo III, che nel 1215 stabilisce l’astinenza da ogni tipo di carne, di qualunque origine. E così sia. Ma le leggende sono dure a morire. Nel 1605 il botanico francese Claude Duret pubblica a Parigi la sua Histoire admirable des plantes et des herbes, classificando specie di alberi che partoriscono animali: le foglie caduche che toccano l’acqua diventano pesci; quelle che finiscono al suolo, uccelli marini.

La Botanica Fantastica sopravvive ai secoli e ai negazionisti. Nel 1981 l’artista romano Luigi Serafini pubblica il Codex Seraphinianus, composto – come il Manoscritto Voynich – in una lingua inventata. Per Italo Calvino è «l’enciclopedia di un visionario»: benché figlio di un agronomo e di una botanica, lo scrittore italiano è niente affatto scandalizzato dall’improbabile flora disegnata nel libro, né dalle piante con nomi indecifrabili e forme che sfidano il buonsenso della fisica.

Gli fa eco, nel 1976, il pittore statunitense Leo Lionni, che pubblica per Adelphi La botanica parallela, con 23 illustrazioni e 32 tavole fuori testo che descrivono piante fantastiche con il rigore di un trattato scientifico. Un esercizio di fantasia che riscopre l’appetitosa carne medievale del Barometz, garantita vegetale al 100 per cento.

Per la gioia di tutti i vegani.

Le piante nelle fiabe

Le piante nelle fiabe

Questo articolo fa parte del numero 18 di Web Garden: C’era una volta…

Le fiabe, mondi incantati che si rifanno a profondissimi archetipi della vita e della morte, che racchiudono tutte le esperienze umane di cui i piccoli lettori devono imparare a fare tesoro e la moltitudine di paure che attraverso la magia del racconto saranno chiamati ad esorcizzare, si sono da sempre servite della natura come elemento simbolico e narrativo.

Si pensi per esempio al bosco, la fitta selva in cui molti dei personaggi più noti ed amati dei racconti dell’infanzia, da Biancaneve, a Cappuccetto Rosso e Pollicino per citarne solo alcuni, si perdono e all’interno del quale devono ritrovare la via che li porti alla salvezza. Un luogo scuro, minaccioso, sconosciuto, spesso paragonato all’inconscio che richiede di essere sondato, un terreno ignoto nel quale bisogna immergersi per conoscere sé stessi e fare i conti con i propri timori, ma anche dove l’eroe scopre di avere le risorse per emergere e poter tornare alla luce mutato, cresciuto, più forte e consapevole.

Piante generatrici e distruttrici, piante che sono strumento e che sono esse stesse personaggi: la letteratura è ricchissima di spunti in questo senso e Web Garden qui ve ne propone alcuni. Una delle fiabe più dolci, che rimanda a quei vecchi libri di un tempo dalle illustrazioni magnifiche, è “I Fiori della Piccola Ida” di Hans Christian Andersen.

La bambina osserva con rammarico il suo mazzolino di fiori appassire, ed uno studente le spiega che i fiori, dall’aria così stanca, sono esausti per aver danzato tutta la notte in un sontuoso ballo a corte. Nottetempo la piccola si sveglia e va a spiare i suoi fiori, che trova ancora una volta intenti a danzare al cospetto del re e della regina, delle bellissime rose, ed il giorno dopo, sapendo che i suoi fiori hanno vissuto intensamente, può lasciarli andare con serenità, ormai del tutto spenti. È una delle favole meno note del celebre autore, ma di grandissima poesia.

La rosa è uno dei personaggi chiave del “Piccolo Principe” di Antoine de Saint-Exupéry, una favola che affronta con estrema delicatezza tutti i grandi temi dell’esistenza: amore, amicizia, distacco. Simbolo dell’amore romantico, il piccolo eroe si dedica al fiore, immagine della donna, dispensandogli cure, attenzioni, dedicandogli il suo tempo con abnegazione.

Ed è così che impara ad amare, perché comprende che sono i gesti che le ha donato, a rendere quella rosa la sua rosa, sono ciò che fanno si che sia unica e specialissima in una moltitudine di rose che altrimenti si assomiglierebbero tutte: “Gli uomini coltivano cinquemila rose nello stesso giardino… e non trovano quello che cercano… e tuttavia quello che cercano potrebbe essere trovato in una sola rosa o in un po’ d’acqua”, comprende. Ed è ancora una rosa il simbolo dell’amore che va trovato oltre l’apparenza, come ci viene narrato ne “La Bella e la Bestia”, un amore che se non viene compreso nella sua sostanza più profonda appassisce e muore.

E’ una pianta dispensatrice di vita e di morte quasi da Antico Testamento il cespuglio del terribile racconto “Il Ginepro” dei fratelli Grimm. Caratterizzati da risvolti estremamente cruenti, i racconti di questi autori tedeschi hanno terrorizzato i bambini di molteplici generazioni. È il ginepro a donare la maternità ad una sposa infertile, regalandole un bambino bianco come la neve e rosso come il sangue, ed è ancora il ginepro a vendicarne la dipartita – avvenuta nei modi più abominevoli – tramite un maestoso e variopinto uccello generato dal magico cespuglio che ne canterà le vicende e ne punirà, naturalmente con la morte, l’assassina.

Moltissime sono le fiabe in cui gli elementi della natura sono magici strumenti che concorrono ad aiutare o a mettere in difficoltà il protagonista. Cenerentola non avrebbe mai potuto raggiungere il ballo se non fosse stato per la zucca trasformata in carrozza, e come avrebbe fatto Alice, nel suo Paese delle Meraviglie, a mutare di dimensione senza i suoi funghi magici?

Jack vive le avventure più strabilianti grazie ad una manciata di fagioli dai poteri straordinari e sono le casacche di ortiche, lavorate nel dolore, che restituiscono ai principi le loro originali sembianze ne “I Cigni Selvatici”, ancora una volta di Andersen. 

Si dice che la nostra vita terrena abbia avuto inizio con il morso dato al frutto di un albero diverso da tutti gli altri alberi, e da allora la profonda simbologia della natura non ha mai abbandonato l’uomo e la sua interpretazione del mondo che lo circonda.

Viaggio alle origini della Botanica: barbari, filosofi e santi.

Viaggio alle origini della Botanica: barbari, filosofi e santi.

Questo articolo fa parte del numero 17 di Web Garden: Il Giardino dei Semplici

Nei secoli bui del Medioevo, quando l’unico riparo dalle orde dei Barbari che scendevano da Nord erano le mura di un castello o di un monastero, la Storia disegnava una nuova fisionomia dell’Europa.

L’architettura, seguendo le leggi della sopravvivenza, confinava la quotidianità tra le cinta dei nuovi insediamenti. Tutto era chiuso e sicuro: nascita, morte, preghiere, artigianato e studi, svaghi e mercati, allevamento, orti, campi e frutteti. Nel mondo la Natura si riappropriava dei suoi spazi. Le terre che erano state bonificate e coltivate fino alla caduta dell’Impero romano tornavano al proprio stato originario.

Fuori dilagavano i boschi. Dentro, ordinato come una liturgia, nasceva il giardino monastico.

Benché coltivato all’interno dei centri religiosi medievali, il Giardino dei Semplici non indicava alcuna virtù cristiana.

Era un orto destinato a piante ed erbe officinali: Simplicis Medicinae e Simplicis Herbae, medicamenti preparati con una sola pianta, a differenza dei Composita, i rimedi misti, dove gli ingredienti erano mescolati dai monaci con sapienza e qualche azzardo. Poco più in là, nello stesso spazio recintato del monastero (Hortus Conclusus), crescevano ortaggi.

Già nel mondo antico la botanica era una disciplina straordinariamente importante. Plutarco (I-II secolo d.C.), il prolifico biografo greco di cui gli ex studenti ricordano con vaghezza le Vite Parallele, attestava la presenza di un giardino di piante medicinali e velenose nell’Asia Minore del III secolo a.C. voluto da Attalo, re di Pergamo.

Intanto Teofrasto (IV-III secolo a.C.), discepolo di Aristotele, scriveva due corposi trattati sulle piante, classificandone 455 specie e passando alla storia come “il padre della botanica”. Il greco Dioscoride (I secolo d.C.) si concentrava Sulle erbe mediche, testo sacro della farmacopea antica, utilizzato fino al XVII secolo quando fu scavalcato dalla nascita della medicina moderna.

Orto Botanico di Pisa

Nel frattempo, in Italia, Plinio il Vecchio (I secolo d.C.) dedicava sedici libri della sua mastodontica Naturalis historia a erbe, coltivazioni e medicamenti.

Poi calarono gli Unni, e con essi un’altra ventina di tribù germaniche. Roma cadde, l’Impero si disgregò, si instaurarono i regni romano-barbarici. Iniziò il Medioevo. In quei centri di cultura e salvaguardia della memoria che furono abbazie, monasteri e conventi, la giornata – fitta di impegni – era organizzata con meticolosità. Grazie a questa disciplina Ildegarda di Bingen (1098-1179) poté essere monaca, musicista, badessa, artista, teologa, compositrice, poetessa e diventare infine Santa, ma anche passare alla storia come una botanica formidabile.

Nel suo Liber Simplicis Medicinae sono raccolte oltre 300 specie vegetali da usare come farmaci “semplici”. Per la ritenzione idrica e le infiammazioni renali c’era il levistico (Levisticum officinale); contro i vermi parassiti il tanaceto (Tanacetum vulgare), ottimo anche per la gotta e i reumatismi. Le malattie infettive dell’apparato respiratorio erano curate con la santoreggia (Satureja L.), il diabete con il cumino (Cuminum cyminum). Ogni disturbo aveva la sua pianta, e se è vero che molte cure erano palliative, se non talvolta dannose, è anche vero che oggi la scienza ha confermato l’utilità di certi antichi rimedi.

Intanto il lungo millennio del Medioevo avanzava verso il Rinascimento. Nei Giardini dei Semplici si affacciavano altre specie, spesso non medicinali. Gli orti dei monaci si spostavano in quei nuovi centri della cultura e del sapere che erano le università, dove le piante erano coltivate a scopo didattico e scientifico, da professori e studenti non sempre interessati a indagarne le proprietà officinali.

Fuori le mura dei conventi, nel 1543 Cosimo I de’ Medici fondava il primo orto universitario al mondo, quello di Pisa (la cui posizione attuale risale però al 1591, ndr). Due anni dopo (1545), l’ateneo di Padova inaugurava quello che è a tutt’oggi il più antico orto botanico ancora nella sua collocazione originaria. Nello stesso anno nasceva quello, maestoso, di Firenze (1545). La botanica stava diventando una scienza autonoma, si distaccava dalla Medicina, e dal Giardino dei Semplici germogliava semplicemente il giardino.

La danza delle api

La danza delle api

Questo articolo fa parte del numero 15 di Web Garden: Il linguaggio della Natura: le api.

Uomo e Natura: un rapporto interdipendente e simbiotico, in cui l’essere umano è da un lato oggetto della relazione, e dall’altro soggetto che si astrae per studiare ed osservare questo cosmo di cui è egli stesso partecipe, come se potesse godere di un punto di vista privilegiato che non lo richiami sempre in causa.

Dagli albori del suo percorso su questa terra, l’uomo si interroga sul funzionamento di ciò che lo circonda, sui suoi ritmi e sul suo linguaggio per ragioni sia mistiche, ossia per comprendere il proprio posto all’interno di questo incredibile spettacolo, che per ragioni pratiche: per dominarlo, controllarlo, ed oggi anche per proteggerlo e preservarlo.

Dai filosofi della scuola di Mileto fino agli studi scientifici più recenti, è divenuto sempre più chiaro che ogni elemento che compone la Natura ha una sua funzione, un suo ritmo perfetto, un suo linguaggio specifico, complesso ed assolutamente necessario alla sopravvivenza non solo del singolo, ma di tutto l’insieme: come tessere di un puzzle, ognuna delle quali è indispensabile a completare l’opera.

Esempio lampante dell’interconnessione fra uomo e ambiente, ed oggi tristemente presente all’attenzione pubblica per la precarietà della sua sopravvivenza, è il complesso e meraviglioso mondo delle api. Necessarie a garantire attraverso l’impollinazione non solo la biodiversità, ma l’esistenza stessa della natura che ci circonda e quindi la nostra sussistenza, le api operano fra di loro secondo un vero e proprio linguaggio incredibilmente sofisticato ed evoluto, che ne evidenzia l’elevata socialità e la precisa collaborazione di ogni elemento.

Lo studio di questi insetti è affascinante, ed un importante contributo in materia proviene dallo zoologo austriaco Karl Von Frish, le cui ricerche sono raccolte nella celebre opera “Il Linguaggio delle Api”, ed i cui risultati sono stati riconosciuti dal conferimento del premio Nobel nel 1973. 

L’alveare è un microcosmo indipendente e compiuto, dove ogni singola funzione è precisamente distribuita e dove si è sviluppato un sistema di comunicazione che si è in buona parte riusciti a decodificare, mostrandoci ancora una volta la perfezione del creato. Affinchè la comunità sopravviva, le api parlano fra di loro attraverso diversi espedienti, uno dei quali è la danza.

Una delle funzioni dell’ape operaia è quella di procacciare il cibo. Le api dette esploratrici lasciano l’alveare per perlustrare la zona in cerca di nutrimento, per poi tornare all’alveare e comunicare alle api bottinatrici, le quali sono effettivamente designate alla raccolta, dove potranno rifornirsi.

A questo punto, le api esploratrici compiono una danza i cui movimenti indicano con grande precisione la distanza che le bottinatrici dovranno percorrere per trovare il cibo. Se questo si trova ad una distanza inferiore agli ottanta metri, l’ape eseguirà una danza circolare e l’odore dei fiori che resta sul loro corpo fornirà ulteriori indicazioni per arrivare alla meta indicata. Quando invece la distanza fra l’alveare ed il cibo è superiore, la danza diventerà “scodinzolante”, definita “dell’addome”.

Le api formeranno una sorta di otto, ed il loro ritmo servirà a fornire precise indicazioni stradali: quanto più sarà lento tanto maggiore sarà la distanza da percorrere. Api diverse utilizzano parametri di distanza diversi, ma la modalità di espressione è la medesima. 

I movimenti delle api “ballerine” indicano anche la direzione da intraprendere, utilizzando il sole come punto di riferimento. Se la danza sarà rivolta verso l’alto, i fiori da ricercare saranno in direzione del sole, se è rivolta in basso, le bottinatrici si dirigeranno invece dalla parte opposta, ed una danza orientata ad un certo numero specifico di gradi rispetto al sole di nuovo rifletterà lo stesso orientamento del cibo.

Un recente studio dell’Università del Minnesota ha codificato 1.528 movimenti diversi che le api compiono in questa danza, ognuno dei quali costituisce un’informazione utile per la raccolta di cibo. Hanno anche rilevato che ogni secondo in cui l’ape si sposta in linea retta durante la danza, equivale a circa 750 metri di distanza. 

Di recente è stato scoperto che la danza non è utilizzata solo nel procacciamento delle risorse, ma anche per la ricerca di una nuova abitazione, fenomeno noto come “sciamatura”. Quando la popolazione di un alveare aumenta eccessivamente, circa metà della popolazione emigra al seguito della vecchia regina per lasciare il posto alla nuova.

L’aspetto affascinante in questo caso è che prima del “trasloco”, diverse api compiono danze differenti, offrendo sostanzialmente diverse proposte per una nuova dimora alle compagne. Con il tempo le danze tendono ad unificarsi, e la scelta finale si opera quando la quasi totalità delle api esploratrici compie lo stesso movimento.

Il tempo di ricerca e decisione si aggira fra i 6 ed i 14 giorni e a scegliere non è l’ape regina, bensì le api operaie: una monarchia forse meno assoluta di quanto non si sia portati a immaginare.

La potenza dell’immaginazione

La potenza dell’immaginazione

Questo articolo fa parte del numero 14 di Web Garden: Immaginare. Creare. Recuperare

Senza immaginazione non esisterebbe progresso. Senza una visione, l’uomo sarebbe ancora lì con la clava in mano.

Una celebre frase di Albert Einstein insegna che «l’immaginazione è più importante della conoscenza»: là dove «la conoscenza è limitata», l’immaginazione ha la potenza di «abbracciare il mondo». Ogni piccolo o immenso passo nella storia dell’umanità ha un minimo comun denominatore: quello di essere stato prima ideato. Così è la scienza – di cui Einstein ne capiva abbastanza – e, per estensione, la botanica.

Senza immaginazione non esisterebbe progresso. Senza una visione, l’uomo sarebbe ancora lì con la clava in mano (e provate pure a coltivare il vostro giardino, fisico o interiore, senza prima averlo immaginato: poi se ne riparla).

A riordinare il caos della creatività ci pensa la sapienza dell’uomo, con la speculazione filosofica, la letteratura e tutte quelle scienze umane che a prima vista appaiono così poco pragmatiche, e invece no. Il 4 novembre 1869, quando esce in Inghilterra il primo numero di «Nature», destinato a diventare una delle più importanti pubblicazioni scientifiche al mondo, la copertina del primo numero è affidata agli aforismi di J. W. Goethe, che a quel punto della Storia è già morto da un po’, ma di cui restano – immortali – gli scritti.

«Nature», la Bibbia della Scienza – da cui passa la scoperta dei raggi X, il buco dell’ozono, la struttura a doppia elica del Dna, la fissione nucleare, la tettonica a zolle, il genoma umano, la clonazione (occorre continuare?) – affida se stessa alle speculazioni di un filosofo e letterato, e contemporaneamente chiarisce la propria ragione d’essere («A Weekly Illustrate Journal of Science», «Settimanale di Scienza illustrato») rimettendosi alle parole del poeta britannico William Wordsworth: «To the solid Ground of Nature trusts the mind which builds for aye» / «Alla solida base della Natura si affida la mente che costruisce per sempre».

Poco meno di un anno fa, nel Magazine n. 5 di Web Garden, l’editoriale Il giardino, luogo segreto dell’animo indagava il legame indissolubile tra letteratura e scienze botaniche, raccontando di quegli scrittori che – per giocare con le parole di Virginia Woolf («Una stanza tutta per sé») – avevano avuto un giardino tutto per sé: Voltaire, Emily Dickinson, Stevenson, Victor Hugo, il poeta italiano Camillo Sbarbaro (così sublime, così dimenticato) e la stessa Woolf, che per anni curò con amore e intelligenza i fiori e le piante di Monk’s House, nell’East Sussex, dove il marito Leonard seppellì le sue ceneri sotto un olmo.

Sebbene la proprietà commutativa insegni che cambiando l’ordine degli addendi il risultato non cambia,  con il Magazine n. 14, Web Garden ribalta la prospettiva: oggi è la Scienza a servirsi della letteratura e della filosofia per spiegare se stessa

Ecco allora che «immaginare, creare, recuperare» non è solo un titolo accattivante per allettare alla lettura di qualche articolo, o per gustarsi i nostri bellissimi (e diciamolo!) video. È il percorso necessario del progresso e della scienza, perché – traslando la frase del filosofo tedesco-americano Herbert Marcuse («l’immaginazione al potere») – l’immaginazione HA il potere e, come insegna il postulato di Lavoisier, «nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma». Oggettività che fa del «recuperare» non più un’effimera moda di questo XXI secolo buonista e green, ma la legge fisica che fonda la meccanica classica; e di noi, i suoi umili – spesso ignari – debitori. 

In nome della Rosa

In nome della Rosa

Questo articolo fa parte del numero 13 di Web Garden: in nome della Rosa

La rosa, il fiore di maggio, ci accompagna in un viaggio fra colori, storia, cultura e bellezza.

La prima declinazione latina già ne spiega le insidie. Semplice come una filastrocca – rosă, rosae, rosae; ingannevole come un trabocchetto: singolare o plurale, genitivo o dativo, nominativo o vocativo. Delle rosae è il contesto a dettare il significato, altrimenti chissà.

Così è la rosa, deliziosamente ambigua. Bianca d’innocenza e rossa di passione, rosa di amicizia e gialla di gelosia, ma anche di solarità. In nome della rosa si celano segreti: sub rosa dicta velata est, “ciò che è detto sotto la rosa è nascosto”, ed ecco perché sugli antichi confessionali si scolpivano rose, simbolo del vincolo sacro tra sacerdote e peccatore.

Dal silenzio delle chiese al fragore delle armi, in nome della rosa scorre il sangue della Storia. Marte, dio romano della guerra, nasce da una rosa. Ed è tra la rosa rossa dello stemma dei Lancaster e quella bianca degli York che, il 22 maggio di 567 anni fa, deflagra una delle più feroci lotte dinastiche dell’Inghilterra. Tre decenni di guerre, The Wars of the Roses; eserciti decimati, altezze reali assassinate. Alleanze, tradimenti, complotti.

Intanto, per Shakespeare, l’amore tra Romeo e Giulietta si consuma in nome della rosa, che «avrebbe lo stesso dolce profumo se fosse chiamata in qualsiasi altro modo». Per l’autrice settecentesca Barbot de Villeneuve la rosa è l’incantesimo malvagio che scandisce il tempo della Bestia: se non bacerà Belle prima che l’ultimo petalo tocchi terra, rimarrà animale per sempre (La Belle et la Bête).

Per Edmond Rostand il suo nome è il colore di un apostrofo, quello tra le parole “t’amo”(Cyrano de Bergerac). Per Lewis Carroll è l’ossessione sanguinaria della Regina di Cuori, che se per errore una rosa nasce bianca meglio tingerla subito di rosso, altrimenti “Tagliatele la testa!” (Alice nel Paese delle Meraviglie). La Regina capricciosa non sa che tingere i petali di una rosa è superfluo. Le 3.000 mila specie censite abbracciano l’intero spettro visibile all’occhio umano. La rosa accoglie tutti i colori del mondo, a eccezione del blu notte. La rosa blu non esiste in natura, nessuna varietà possiede il gene che ne produce il pigmento. E così è anche l’inafferrabile rosa nera, i cui petali sono in realtà di un viola scurissimo. Un inganno visivo.

Più antica dell’homo sapiens, che ha 300 mila anni o giù di lì, la rosa di anni ne ha 37 milioni e da sempre osserva gli umani dibattersi nelle proprie miserie, e li premia o li condanna secondo il significato con cui è evocata. Anna Peyron, ne Il romanzo della rosa (ADD Editore, 2020), chiama a testimoniare i fossili dell’Oligocene ritrovati in Oregon e Colorado. In un’epoca preistorica in cui il mare tocca il livello più basso nella storia della Terra, la rosa migra e si stabilisce lungo tutto l’emisfero settentrionale, per poi ricomparire milioni d’anni dopo nella mezzaluna fertile tra il Tigri e l’Eufrate. Gli antichi Egizi la coltivano; gli antichi Romani ci ornano le teste dei condottieri vittoriosi.

Nel Rinascimento dalla rosa nascono conserve, miele, sciroppi, profumi, olii essenziali. Poi la coltivazione si dirada. È Giuseppina Bonaparte, la discussa nobildonna che dalla Martinica francese sposa Napoleone e diventa imperatrice, a riportarla con prepotenza in Europa, nel suo ambizioso giardino di Malmaison, a Rueil, otto chilometri da Parigi. Ingorda di varietà esotiche come lo è di piaceri mondani, rilancia – come farebbe oggi un luxury brand – una passione botanica che dilaga nel mondo.

Da quel 1799 i petali bianchi accompagnano la trepidazione della sposa; quelli rossi le acrobazie erotiche degli amanti, per poi scivolare dalle lenzuola nella vasca profumata della donna vanitosa. La celebrano artisti, poeti, musicisti. Versi sublimi e rime banali, perché la rosa è democratica e trasversale. Simone Cristicchi vince Sanremo 2007 con una rosa, metafora della prigionìa nei manicomi (Ti regalerò una rosa). Luigi Tenco, 40 anni esatti prima, a Sanremo si suicida come «atto di protesta contro un pubblico che manda Io, tu e le rose in finale». Nella prigione di Alcatraz, baia di San Francisco, dal 1869 la rosa è il solo svago per i detenuti militari, che la coltivano con perseveranza. Dal 1933 il compito passa ai prigionieri civili, e se il carcere chiude il 21 marzo 1963, oggi resta la Terrazza delle Rose: strappata alla roccia un centimetro dopo l’altro, visitata ogni anno da migliaia di persone.

Negli anni Ottanta, nella Milano-da-bere, alle escort si chiede “quante rose vuoi”? Ogni rosa, centomila lire. Visione profana, devozione sacra: i grani del rosario (rosārium, lett.“rosaio”), che nel XIII secolo sostituiscono le ghirlande di rose per rendere omaggio alla Vergine; la sensualità del tango, con la rosa tra i denti del ballerino che passa nella bocca della sua donna – si spera senza spine.

Juliet rose closeup

Imprevedibile e multiforme, la rosa può avere 5 petali o arrivare a 60. Vale 3 milioni di dollari, se è l’ibrido creato da David Austin in 15 anni di dedizione. Oppure pochi centesimi, se è quella appoggiata dal ragazzino indiano sul tavolo di un ristorante – recisa e congelata dall’altra parte del mondo; effimera promessa d’innamoramento, o più facilmente di una notte soltanto: che se poi sono rose, alla fine fioriranno.