Quando la zucca dei Peanuts si trasformò in cocomero

Quando la zucca dei Peanuts si trasformò in cocomero

Questo articolo fa parte del numero 18 di Web Garden: C’era una volta…

Di Linus – quello originale, non il dj – tutti conoscono la coperta azzurra: quella security blanket da cui il piccolo e saggio amico di Charlie Brown non si separa dal 1° giugno 1954; un oggetto così celebre da essere diventato un modo di dire. 

Ognuno di noi ha la sua “coperta di Linus”. Da bambino può essere una bambola di pezza o un pelouche; da grande, un talismano o un rito privato che ci dà sicurezza. Ma c’è un’altra cosa di cui Linus van Pelt ha bisogno almeno quanto della sua coperta: è la fede incrollabile nel Grande Cocomero, entità sovrannaturale che ogni anno, ad Halloween, sceglie l’orto “più sincero” del mondo per portare doni a tutti i bambini della Terra. 

La verità è che il Grande Cocomero non è mai stato un cocomero, se non nelle edizioni italiane dei Peanuts. Si tratta di una zucca, anzi della Grande Zucca (The Great Pumpkin), il cui nome è citato per la prima volta negli Stati Uniti in una striscia del 26 ottobre 1959, quando in Italia di Halloween si sa più niente che poco. 

Per il geniale fumettista statunitense Charles M. Schulz, papà dei Peanuts, The Great Pumpkin è un altro modo per raccontare un pezzo di vita attraverso lo sguardo lucido e tagliente dei suoi bambini-grandi. 

Per i curatori italiani dei Peanuts, che il 20 febbraio 1961 pubblicano per la prima volta Schulz a pagina 7 di Paese Sera, è un grattacapo. Le parole americane root beer e marshmallow sono, per i lettori degli Anni Sessanta, nomi senza significato: così la prima – una bevanda frizzante tipica degli USA a base di estratti di radici – si trasforma in “orzata”; la seconda – il morbido cilindretto di zucchero bianco-rosa oggi diffusissimo, declinazione commerciale di un antico dolce ricavato dalla pianta Althaea officinalis – diventa “toffoletta”. 

All’inizio, persino Charlie Brown è orfano del proprio nome. I traduttori lo ribattezzano Pierino, quasi quel bambino dalla testa rotonda che dialoga con il suo cane-filosofo fosse roba da niente, invece che l’incarnazione della commedia umana: emblema del perdente che, ostinatamente, resta fedele a se stesso.

La più eclatante libertà che si accollano i traduttori è proprio il Grande Cocomero. A scegliere il nome è Bruno Cavallone, che nel 1963 cura per conto di Milano Libri i primi quattro volumi italiani dei Peanuts. Secondo il suo raffinato palato, Grande Zucca suona male. Non è abbastanza suggestivo, e poi in Italia vige ancora Babbo Natale: occorre un nome maschile che possa evocarlo ai lettori.  Nel 1965 i Peanuts passano al fratello, Franco Cavallone, che li traduce per la rivista Linus, diretta dallo scrittore e giornalista Oreste del Buono, cui va il merito di aver reso popolari in Italia i personaggi immaginari di Schulz. 

In quel periodo, la notte di “dolcetto o scherzetto” non la conosce nessuno. Meglio, quindi, un ortaggio più mediterraneo e succoso, e pazienza se il cocomero ricorda l’estate. La sua traduzione funziona così bene che nessuno si azzarderà più a correggerla, e nel 1993 la regista romana Francesca Archibugi la prenderà a prestito come titolo di un delicato film sui disturbi psichici dei bambini. “Il Grande Cocomero”, appunto.

Ed eccolo, l’ingenuo ma saggio Linus van Pelt, il credulone che cita le Sacre Scritture: da 63 anni intento a presidiare, ogni notte di Halloween, il suo orto di zucche. Prima o poi – ne è certo – il Grande Cocomero passerà anche da lì. E, sebbene immancabilmente deluso, la sua fede non vacilla mai. 

«Io credo che il Grande Cocomero sorgerà nella notte di Halloween e volerà nel cielo con il suo sacco pieno di giochi per ogni bambino del mondo» dice a quella bisbetica della sorella maggiore Lucy. Che lo prende in giro riportando a Charlie Brown la «dichiarazione di scemenza» di suo fratello. «Dichiarazione di FEDE!!» le urla contro Linus, assicurandole che il Grande Cocomero è già stato avvistato sopra alcuni campi degli Stati Uniti.

L’unica a dargli retta è Piperita Patty, perché la sua storia è «talmente stupida e impossibile» che potrebbe essere vera. Anche Sally Brown, la sua innamorata, ogni tanto gli fa compagnia nel campo di zucche. E persino Snoopy, per quanto non ci creda granché. A oggi, The Great Pumpkin non si è mai fatta vedere, ma anche quest’anno Linus sarà lì ad aspettarla.

Dopo tanta incrollabile attesa, visto mai che il 2022 sia la volta buona?

Il delizioso cibo dorato: mieli dal mondo

Il delizioso cibo dorato: mieli dal mondo

Questo articolo fa parte del numero 16 di Web Garden: Il linguaggio della Natura: le api.

Il miele, delizioso cibo d’oro, è amato e conosciuto sin dai tempi antichissimi. I primi ad allevare le api furono gli egizi, lungo il delta del Nilo. Per i greci era il cibo degli dei: nella loro mitologia era Melissa, la figlia del re di Creta, a nutrire Zeus di questo nettare prezioso. I romani ne sfruttavano le proprietà terapeutiche e lo utilizzavano per la preparazione di birre, dolci ed idromele (una bevanda data dalla fermentazione del miele diluito in acqua).

È però sotto Carlo Magno, nel Medioevo, che l’apicoltura si struttura realmente. Un editto del 759d.C. imponeva a chiunque possedesse un podere di allevare le api per il miele e l’idromele, e conventi ed abbazie divennero importanti centri di apicultura.

Ma questo fluido meraviglioso è apprezzato in tutto il mondo da millenni, e se ne trova di ogni genere, dal semplice vasetto al supermercato fino a varietà pregiatissime. Il miele più costoso del mondo, per esempio, viene da una caverna profonda 1.800 metri nella valle del Saricayr, nel nord est della Turchia. Scoperto solo nel 2009 dall’apicoltore turco Gunay Gunduz, il miele Elvish (o miele degli Elfi) è stato venduto per la prima volta all’asta per 45.000 euro al kilo.

Gunduz aveva notato che alcune delle sue api erano sparite all’interno di una caverna. Dopo aver organizzato una vera e propria spedizione, l’apicoltore si è calato all’interno dell’antro per scoprire con sua grande sorpresa che nelle sue più remote profondità le api avevano colonizzato un’enorme camera dove il miele era invecchiato al buio per oltre sette anni. La sua particolarità è che non vi sono alveari, ma viene prodotto direttamente lungo le pareti rocciose ed in totale assenza di luce. Esposto a basse temperature, questo miele si cristallizza e richiede quindi un’attenta lavorazione una volta riportato in superficie. Il suo costo esorbitante è dovuto ad una combinazione di fattori che include la raccolta quanto meno impervia della materia prima, la sua complessa lavorazione, il sapore del tutto unico dato dalle sue condizioni e l’indiscutibile fascino che ammanta le sue origini. Il secondo kilo è stato venduto più a buon mercato: ha raggiunto solo i 28.800 Euro!

A small stream in the Rakiura National Park with Manuka trees and clouds reflected in the water.

In Nepal invece esiste un miele selvatico, le cui proprietà psicotrope gli hanno conferito il nome di “Mad Honey”. Definito come un miele allucinogeno, i suoi effetti spaziano da quelli della forte ubriacatura da alcool fino a quelli di un’overdose e derivano dalla graianotossina, una tossina presente nelle piante di rododendro da cui proviene ed è prodotto dalle api himalayane, le più grandi al mondo. La raccolta del Mad Honey è estremamente complessa e pericolosa, poiché gli alveari si trovano su declivi che richiedono le abilità di scalatori espertissimi per essere raggiunti, anche con l’ausilio di scale di bambù alte fino a centinaia di metri.

Una volta guadagnati gli alveari, i raccoglitori usano del fumo per fugare le api, che spesso si fanno aggressive ed i malcapitati non riescono ad impedire di rientrare alla base con decine di punture. Una volta compiuta l’impresa, il prezioso bottino è suddiviso fra i vari villaggi e deve compiere una lunga strada prima di arrivare alla commercializzazione, dove raggiunge il ragguardevole costo di circa 150 Euro al kilo. Nel 2016 il fotografo e documentarista David Caprara ha realizzato il film “The Honey Hunters of Nepal” ed ha sperimentato su di sé gli effetti di questo nettare decisamente inebriante. Questo miele è utilizzato da millenni all’interno della medicina tradizionale nepalese, come antisettico e come rimedio per la tosse. La tribù autoctona Kulung lo utilizza anche durante i riti di natura sciamanica, per favorire sogni e visioni.

Molto più conosciuto ed accessibile è il miele di Manuka. La pianta da cui proviene, è un sempreverde che cresce in Australia e Nuova Zelanda, ricca di metilgliossale: un principio attivo ben noto nella tradizione Maori per le sue proprietà antisettiche, antibatteriche, antiossidanti, cicatrizzanti ed antibiotiche tanto forti da essere efficaci anche contro il pernicioso stafilococco aureo. I suoi benefici sono talmente potenti che questo miele può essere sia ingerito che utilizzato per preparare impacchi cutanei disinfettanti. È efficace anche per la cura dei bruciori di stomaco, del reflusso gastroesofageo e di tutte le malattie da raffreddamento, come anche l’influenza, poiché aiuta ad aumentare le difese immunitarie.

A differenza dei primi due, questo piccolo nettare miracoloso è facilmente reperibile e si può acquistare a prezzi assolutamente più modici.

L’universo delle api in quattro libri

L’universo delle api in quattro libri

Questo articolo fa parte del numero 15 di Web Garden: Il linguaggio della Natura: le api.

Per molti le api sono solo piccoli insetti che volano di fiore in fiore e producono miele. In realtà, da questa specie dipende il futuro del Pianeta e la salvaguardia della biodiversità. Che cosa succederebbe se le api scomparissero. Perché le api sono così importanti per la vita? E che cosa possiamo fare per preservarle? Quattro libri esplorano queste domande, fornendo alcune risposte per un futuro più sostenibile e rispettoso della Natura.

Oggi le api sono diventate mainstream. Se fino a pochi anni fa erano soltanto insetti che producevano miele, e da cui i bambini dovevano girare alla larga, da qualche tempo “api” è una parola da salotto e da dibattito TV: termometro dei cambiamenti climatici e della prepotenza dell’uomo, che pretende di governare la Natura utilizzando indiscriminatamente pesticidi e prodotti ben poco “green”.

Tutti, per sentito dire, ormai sanno che l’estinzione delle api sarebbe una catastrofe per il Pianeta. Ma come? E perché? E che cosa conosciamo davvero di questo universo così poliedrico e perfettamente organizzato?  Certo, le api sono importanti. La maggior parte del cibo che mangiamo cresce grazie alla loro opera quotidiana di impollinazione. Mele, pere, agrumi, zucchine, carote e cavoli sono solo alcuni degli alimenti che non esisterebbero senza le api. Ma non solo.

Questi insetti sono fondamentali per l’ambiente: la riproduzione e la diffusione di quasi il 90% delle specie vegetali spontanee e selvatiche dipende dalla loro opera di impollinazione. Ecco, allora, quattro libri per meglio comprendere come l’impatto di questi piccoli insetti sia fondamentale per la terra (e per la Terra), per la biodiversità e per la salvaguardia degli ecosistemi.


IL LINGUAGGIO DELLE API

di Karl von Frisch

(Bollati Boringhieri, 2012)

Il linguaggio delle api è il libro più importante dello scienziato austriaco Karl von Frisch, nel quale vengono illustrati gli esperimenti originali da lui condotti sulle modalità di percezione e di comunicazione di questi insetti. Con una serie di ricerche lo scienziato dimostra che nelle api è presente un trasferimento di informazione per mezzo di segni convenzionali. Come l’uomo, dunque, anche l’ape può essere definita un animale “simbolico”.

Le scoperte di von Frisch, premiate con il Nobel per la Medicina nel 1973, rappresentano una tappa fondamentale dell’elaborazione teorica della biologia. Le sue osservazioni si caratterizzano per la loro semplicità, dando la possibilità al lettore di comprendere facilmente il mondo delle api raccontato in questo saggio.elle risorse, ma anche per la ricerca di una nuova abitazione, fenomeno noto come “sciamatura”. Quando la popolazione di un alveare aumenta eccessivamente, circa metà della popolazione emigra al seguito della vecchia regina per lasciare il posto alla nuova.

L’aspetto affascinante in questo caso è che prima del “trasloco”, diverse api compiono danze differenti, offrendo sostanzialmente diverse proposte per una nuova dimora alle compagne. Con il tempo le danze tendono ad unificarsi, e la scelta finale si opera quando la quasi totalità delle api esploratrici compie lo stesso movimento.

Il tempo di ricerca e decisione si aggira fra i 6 ed i 14 giorni e a scegliere non è l’ape regina, bensì le api operaie: una monarchia forse meno assoluta di quanto non si sia portati a immaginare.


L’INTELLIGENZA DELLE API. COSA POSSIAMO IMPARARE DA LORO

di Randolf Menzel e Matthias Eckoldt

(Cortina Raffaello, 2017)

Randolf Menzel è una delle massime autorità in fatto di api. In questo libro, insieme con il filosofo Matthias Eckoldt, svela segreti e curiosità di questi preziosi insetti. Il libro si articola in sei capitoli che esaminano la sofisticata anatomia dell’ape, ma soprattutto del loro cervello. Amiamo le api perché producono il miele, ma sono anche fra gli animali più importanti e intelligenti del pianeta.

Il loro cervello pensa, pianifica, fa di conto e forse sogna. Come percepiscono i profumi e vedono i colori, come si forma la loro memoria, come apprendono regole e modelli, come riconoscono i volti, da dove derivano le loro conoscenze, che cosa sanno e come vengono prese le decisioni: Menzel ed Eckoldt raccontano le straordinarie capacità intellettive delle api attraverso le ricerche dello stesso Menzel e dei suoi collaboratori.


LA DEMOCRAZIA DELLE API

di Thomas D. Seeley

(Montaonda, 2017)

Thomas D. Seeley, professore di biologia alla Cornell University, Stato di New York, è una delle massime autorità nella ricerca sulle api e un appassionato apicoltore. In questo libro racconta ciò che avviene in uno sciame d’api subito dopo l’abbandono dell’arnia. Le api prendono le loro decisioni collettivamente e democraticamente. Ogni anno, alla fine della primavera, devono affrontare un problema cruciale: scegliere una nuova dimora, azione che mette in pericolo la sopravvivenza dell’intero alveare.

Lo sciame avvia un processo di ricerca, discussione e decisione che vede protagoniste centinaia di api esploratrici. Alla fine, grazie a un meraviglioso meccanismo naturale del tutto simile a quello usato da alcuni neuroni del nostro cervello, la scelta viene fatta, e quasi sempre è quella migliore. In questo libro troviamo la storia di una ricerca sull’intelligenza dello sciame, svolta da biologi e studiosi del comportamento animale, ma anche alcuni spunti su come noi esseri umani potremmo migliorare il nostro modo di discutere e decidere collettivamente.


L’ARTE DELLE API

di Renata Manganelli

(Astragalo, 2022)

Questo volume è un messaggio per sensibilizzare e informare l’opinione pubblica facendo luce sull’incredibile mondo delle api. Attraverso disegni e testi informativi, la scrittrice Renata Manganelli spiega ai lettori alcune delle pratiche quotidiane per contribuire alla protezione di questa specie. Il libro è anche un’ode alla biodiversità di cui le api hanno bisogno e che, senza di loro, noi non potremmo avere, e offre una visione di quanto i meccanismi della Natura siano concatenati e di come ogni ingranaggio sia fondamentale al funzionamento dell’intero sistema. Le illustrazioni, del laboratorio «L’Incontrario» di Pistoia, sono nate grazie a un progetto di integrazione lavorativa e inclusione sociale per ragazzi con disabilità.

Il ricavato della vendita supporta la campagna Greenpeace «Salviamo le api».

Vigneti estremi

Vigneti estremi

Questo articolo fa parte del numero 14 di Web Garden: Immaginare. Creare. Recuperare

Vigneti estremi dal mondo: visione, coraggio e dedizione rendono ancora una volta – e sempre – possibile l’impossibile.

Il vino, questo “composto di amore e luce”, come lo definiva Galileo Galilei, è un piccolo miracolo del connubio fra terra e uomo, il cui prodotto è un elisir che infonde piacere al palato e alla vista e all’olfatto, che invita ad amare, a filosofeggiare, ad abbandonarsi. Talvolta, questo nettare è anche frutto della capacità visionaria di agricoltori inventivi e coraggiosi, che hanno saputo portare a produttività dei terreni impervi e complicati, riuscendo a recuperare dalla terra una meraviglia niente affatto scontata.

È il caso in Italia dei vitigni eroici, cosi definiti perché situati su terreni a rischio di dissesto, oppure ove le condizioni geografiche impediscono la meccanizzazione, o ancora perché si trovano in luoghi di particolare pregio paesaggistico e ambientale. Pensiamo per esempio alle coltivazioni sulle pendici delle Alpi, o sulle coste a picco sul mare della Liguria, o fra i terreni scoscesi e rocciosi dei vulcani o delle piccole isole, dove si ottengono vini di qualità eccellente solo grazie ai poderosi sforzi e alle attente e faticose cure dei viticoltori.

Se il nostro Paese, con la sua incredibile biodiversità e varietà territoriale è un grande esempio di come l’uomo riesca a immaginare e quindi creare anche nelle condizioni più estreme, anche all’estero troviamo oggi produzioni vinicole in luoghi mai prima considerati adatti a questo scopo. I vigneti della Siam Winery, situata sul delta del fiume Chao Phraya in Thailandia, sono costituiti da piante galleggianti che crescono su isole separate da canali d’acqua, utili a refrigerare le uve e a contrastare le elevate temperature della zona.

Nella valle di La Geria a Lanzarote, nelle isole Canarie, si trovano vigneti coltivati su terreno lavico secco. Qui, per riuscire a far maturare l’uva, ogni singola vite è piantata in una buca larga cinque metri e profonda tre, e protetta da mura circolari dette Zocos.

Sulle montagne della vicina Svizzera esiste un vigneto, nella zona di denominazione di Beudon, a cui si accede esclusivamente attraverso un sentiero molto ripido, oppure grazie alla funivia privata del Domaine de Beudon, che trasporta l’uva più a valle durante la vendemmia. Per quanti nel bicchiere desiderassero percepire il sentore dei coralli, l’enologo francese Sébastien Thepenier del Domain Dominique Auroy si è cimentato nella coltivazione di un vigneto di circa sei ettari sull’Atollo di Rangiroa, nella Polinesia Francese. Piantate fra le palme da cocco, le viti affondano le loro radici nei detriti corallini, infondendo al vino un profumo del tutto unico.

Le condizioni climatiche di estremo freddo ed estremo caldo non sembrano poi più ostacolare gli audaci. I vigneti più a Nord del mondo sono in Norvegia, a due ore di distanza da Oslo, sulle rive del lago Norsjø, dove dal 2007 il vigneto Lerkekasa sfida l’inimmaginabile. La selezione delle viti adatte a resistere ad una simile latitudine non è stata semplice.

A spuntarla sono state le Rondo, le Léon Millot e le Solaris, un ceppo ibrido e selezionato per la sua resistenza al freddo. E quanti ritenevano che nel deserto non crescesse nulla, avranno a ricredersi. Karim Hwaidak della Sahara Vineyards, vicino al Cairo, è il fiero proprietario di 600 ettari in cui coltiva con tenacia e passione circa trenta varietà di uve differenti, che ogni giorno resistono alla assoluta mancanza di pioggia e alle fortissime escursioni termiche.

Immagine di Debbie Galbraith da IStock
Immagine di Julia Maas da IStock

La Rosa, una spia al servizio della vigna

La Rosa, una spia al servizio della vigna

Questo articolo fa parte del numero 13 di Web Garden: in nome della Rosa

La rosa e la vite, un connubio naturale dalle origini pragmatiche e antiche, molto più di un semplice vezzo del vignaiolo.

Dal Monferrato alle Langhe, dalla Champagne alla Borgogna, un vigneto non è un vigneto se non ha una rosa all’inizio di ogni filare. È solo un tocco di eleganza, un inno alla bellezza e al romanticismo, o ha una sua origine di pragmatismo contadino?

La rosa in vigna c’è sempre stata fin dal tempo dei Romani, ha solo cambiato la sua funzione. Un tempo, quando non esistevano i prodotti di sintesi per combattere le malattie tipiche della vite (Oidio, Peronospora, Mal dell’esca, ecc.), il contadino aveva a sua disposizione solo prodotti naturali: verderame, zolfo, poltiglia bordolese.

Ma poiché nella vita è meglio la prevenzione della cura, come già insegnava tra Sei e Settecento lo scienziato e medico visionario Bernardino Ramazzini, come sapeva il contadino quando intervenire prima che la vigna si ammalasse?

Piantava una rosa a ogni testata. Da sempre, la rosa contrae le malattie tipiche della vite una settimana in anticipo, cosicché il contadino, appena vedeva i suoi petali in sofferenza, interveniva e trattava. Era una sorta di Mata Hari o di Contessa di Castiglione, che con la loro bellezza erano spie formidabili.

Oggi nei vigneti si usano prodotti di sintesi (non in quelli biologici e biodinamici) che si danno preventivamente per risolvere tutti i problemi.

Così la rosa è diventata solo più motivo di raffinatezza e ornamento, e ha perso il suo ruolo di sentinella delle vigne.

Ma per il vignaiolo gentiluomo rimane pur sempre una coccola da regalare alla dama, come retaggio della nobile e centenaria tradizione di celebrare con un fiore la beltà femminile.

Foto di Marco Beck Peccoz per Web Garden

Leccornie a “centimetro zero”

Leccornie a “centimetro zero”

Questo articolo fa parte del numero 12 di Web Garden: il Sapore dei Fiori.

I colori dei fiori della primavera giungono ad allietare il nostro sguardo, ma possono regalarci anche grandi delizie del palato.

Altro che “sostenibilità” e “chilometro zero”: concetti tanto di moda quanto ingannevoli.

Ci sono ristoranti, dal Nord Europa all’Estremo Oriente, dove queste parole sono intese nel loro senso più rigoroso. Luoghi che coltivano frutta, verdura ed erbe aromatiche a pochi metri dalla propria cucina. È la nuova frontiera della ristorazione: l’autoproduzione unita a un astuto utilizzo di quelle fonti rinnovabili che la Natura ancora ci regala. Qui, di fianco ai tavoli, spuntano orti e piccoli terreni coltivati per menù “a centimetro zero”, ché il chilometro sarebbe già troppo.

In Italia, uno dei più famosi è il ristorante Piazza Duomo, alle porte di Alba.

Tre stelle e un punto esclamativo sulla Guida Michelin, alla voce “merita il viaggio!”. Lì, poco distante, sorgono una serra e un orto dove vengono coltivati (in regime biologico e biodinamico) gli ortaggi, le erbe e i fiori che lo chef Enrico Crippa raccoglie personalmente ogni mattina; 400 specie vegetali, tra botaniche e orticole, dalle più comuni alle più rare.

La passione dello chef per gli ortaggi è dimostrata dal suo cavallo di battaglia: l’Insalata 21, 31, 41 dove i numeri indicano la varietà di foglie e piante utilizzate per questo piatto, la cui combinazione varia ogni giorno, in base alla disponibilità e alla stagionalità.


Dill di Reykjavík

Nel Nord Europa, e precisamente in Islanda, c’è un esempio di cucina e produzione alimentare strettamente legate alla terra. È quella di Dill, a Reykjavík, primo ristorante islandese a ricevere una stella Michelin (2017); inaugurato nel 2009 con l’obiettivo di offrire un’esperienza unica attraverso l’uso di materie prime autoctone – ortaggi a radice, semi e piccole piante – con metodi e preparazioni tradizionali, come la salatura e l’affumicatura, o moderni, come la disidratazione.

Da Dill, protagonista della cucina sono cultura e territorio. Il pane di segale, ad esempio, viene cotto all’interno di un recipiente ermetico e sepolto in una sorgente geotermica per 24 ore. Un’ottima soluzione quando vivi su un’isola con quantità illimitate di energia termica sotterranea.

Anche in Oriente la cucina riscopre i sapori della tradizione.

Baan Tepa è un ristorante molto famoso a Bangkok. Si tratta di una casa costruita negli anni Ottanta, riconvertita in uno spazio alimentare urbano. L’approccio alla cucina e al cibo è guidato dall’autenticità. Gli ingredienti sono coltivati e allevati da piccole comunità agricole, o provengono dall’orto urbano che si trova proprio al centro del complesso. Le verdure e i semi vengono selezionati tra le varietà che crescono in Thailandia. Il giardino è il luogo in cui si trovano le piante, nelle vasche rialzate si coltiva a rotazione una serie di erbe aromatiche, verdure e spezie.

Tutto è lavorato nel rispetto della sostenibilità: le piante vengono nutrite con il compost ricavato dagli avanzi di cibo della cucina e dalle erbacce del giardino.  L’esperienza culinaria di Baan Tepa è immersiva. Gli ospiti vengono accolti, portati nell’orto e incoraggiati a raccogliere le erbe e le spezie per conoscere meglio gli ingredienti che assaporeranno durante la cena.

Il cibo non è solo un bisogno necessario alla sopravvivenza, ma veicola un messaggio culturale legato al luogo d’origine. È elemento di aggregazione e di condivisione: il cibo nutre e scalda il cuore. E se c’è un geyser, poi.