Visita al Castello Cavour fra parco, tramonto e lumi di candela

Visita al Castello Cavour fra parco, tramonto e lumi di candela

C’è già l’aria frizzantina della sera quando i soci di Web Garden arrivano a Santena, a pochi chilometri da Torino. Qui, alle sette, la Fondazione Camillo Cavour apre i cancelli soltanto per noi, accolti all’ingresso niente-di-meno-che dal direttore Marco Fasano. Lui e Serena Rossi, instancabile braccio operativo (e fucina di idee) della Fondazione, hanno preparato per Web Garden una serata speciale.

Si inizia con una lunga passeggiata nel parco della tenuta, maestosa opera dell’architetto paesaggista prussiano Xavier Kurten, all’epoca direttore del parco di Racconigi, che nel 1830 dispone gli alberi, isolati o a gruppo, nella fascia attorno al prato centrale e lungo il perimetro esterno, per nascondere i muri di confine con folti boschetti, solo apparentemente spontanei. Nei 16 ettari di quello che, oggi, è uno straordinario parco all’inglese siamo accolti da platani, frassini, ippocastani, carpini, aceri e querce pluricentenarie.

La guida naturalistica che accompagna i soci di Web Garden ne illustra storia e curiosità; e così scopriamo che il nucleo originario risale ai primi del ‘700, quando fu edificato l’attuale castello, affacciato – al tempo – su un giardino organizzato in quattro parterre delimitati da siepi e bordure fiorite. Nella seconda metà del Settecento il giardino diventa prato, chiuso da filari di alberi disposti perpendicolarmente alla villa. Il resto è ancora spazio agricolo, perché a questo servivano le tenute di campagna della nobiltà piemontese. Poi l’intervento di Kurten trasforma ogni cosa: non più utilità e agricoltura, ma pace, ristoro e bellezza.

Il tramonto ci riaccompagna verso l’edificio principale, ma non ancora all’interno del Castello. Per una visita a lume di candela occorre il buio, e l’attesa è premiata da un light dinner preparato dal ristorante “Le Vecchie Credenze” dentro la Sala Diplomatica, impossibile da visitare altrimenti, con i suoi stucchi antichi, gli arredi e gli specchi. Lì, proprio accanto alla grande terrazza che, dall’alto, affaccia sul prato, si dà un’ultima occhiata al Parco, ma senza poterne cogliere i confini: un po’ per l’astuta sistemazione dei grandi alberi, un po’ perché la notte è iniziata. Sulle scale che, dalla terrazza, portano all’ingresso del Castello si accendono lumi e candele. È arrivata l’ora di immergerci nel passato, quando l’avvento dell’elettricità era lontano e la vita aderiva di più ai ritmi della natura.

Con curiosità e cautela si entra nel Castello. Qualcuno accende la torcia del telefonino: la storta è in agguato. Ma è una prudenza inutile. Le candele fanno il loro dovere e gli occhi si abituano all’oscurità, da cui – piano piano – emergono meraviglie. Ecco i saloni aulici del pianterreno, la sontuosa stanza da letto della marchesa Filippina de Sales, nonna paterna di Camillo Cavour, che riposava sotto un baldacchino di stoffe ricamate; la Sala delle Caccie, i salottini da cui spunta un preziosissimo tavolino del Piffetti; l’ancor più prezioso vaso di Sèvres, dono di Napoleone III a Camillo Cavour: memoria di quando l’Italia iniziò a unirsi con l’alleanza di Inglesi e Francesi.

Tra un “attenzione” e un “dove sei?”, il gruppo di Web Garden si immerge in un’epoca scomparsa; e non solo per la suggestiva visione di una certa, pur sabauda, sfarzosità. Salendo al mezzanino – allestito soltanto per Web Garden ed escluso dal normale percorso di visita – ecco la stanza della servitù e un appartamento più domestico e quotidiano. Non tutti i giorni dell’anno trascorrevano in uno scenario da “Downton Abbey”. Capitava di mangiare a una tavola più modesta, di dormire in un letto meno sontuoso, di ritrovarsi davanti a un caminetto per leggere a lume di candela o ricamare, chiacchierando di qualche sciocchezza o discutendo di conti e lavori da eseguire. Come qualunque famiglia, in ogni luogo e in ogni età.

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Quando la zucca dei Peanuts si trasformò in cocomero

Quando la zucca dei Peanuts si trasformò in cocomero

Questo articolo fa parte del numero 18 di Web Garden: C’era una volta…

Di Linus – quello originale, non il dj – tutti conoscono la coperta azzurra: quella security blanket da cui il piccolo e saggio amico di Charlie Brown non si separa dal 1° giugno 1954; un oggetto così celebre da essere diventato un modo di dire. 

Ognuno di noi ha la sua “coperta di Linus”. Da bambino può essere una bambola di pezza o un pelouche; da grande, un talismano o un rito privato che ci dà sicurezza. Ma c’è un’altra cosa di cui Linus van Pelt ha bisogno almeno quanto della sua coperta: è la fede incrollabile nel Grande Cocomero, entità sovrannaturale che ogni anno, ad Halloween, sceglie l’orto “più sincero” del mondo per portare doni a tutti i bambini della Terra. 

La verità è che il Grande Cocomero non è mai stato un cocomero, se non nelle edizioni italiane dei Peanuts. Si tratta di una zucca, anzi della Grande Zucca (The Great Pumpkin), il cui nome è citato per la prima volta negli Stati Uniti in una striscia del 26 ottobre 1959, quando in Italia di Halloween si sa più niente che poco. 

Per il geniale fumettista statunitense Charles M. Schulz, papà dei Peanuts, The Great Pumpkin è un altro modo per raccontare un pezzo di vita attraverso lo sguardo lucido e tagliente dei suoi bambini-grandi. 

Per i curatori italiani dei Peanuts, che il 20 febbraio 1961 pubblicano per la prima volta Schulz a pagina 7 di Paese Sera, è un grattacapo. Le parole americane root beer e marshmallow sono, per i lettori degli Anni Sessanta, nomi senza significato: così la prima – una bevanda frizzante tipica degli USA a base di estratti di radici – si trasforma in “orzata”; la seconda – il morbido cilindretto di zucchero bianco-rosa oggi diffusissimo, declinazione commerciale di un antico dolce ricavato dalla pianta Althaea officinalis – diventa “toffoletta”. 

All’inizio, persino Charlie Brown è orfano del proprio nome. I traduttori lo ribattezzano Pierino, quasi quel bambino dalla testa rotonda che dialoga con il suo cane-filosofo fosse roba da niente, invece che l’incarnazione della commedia umana: emblema del perdente che, ostinatamente, resta fedele a se stesso.

La più eclatante libertà che si accollano i traduttori è proprio il Grande Cocomero. A scegliere il nome è Bruno Cavallone, che nel 1963 cura per conto di Milano Libri i primi quattro volumi italiani dei Peanuts. Secondo il suo raffinato palato, Grande Zucca suona male. Non è abbastanza suggestivo, e poi in Italia vige ancora Babbo Natale: occorre un nome maschile che possa evocarlo ai lettori.  Nel 1965 i Peanuts passano al fratello, Franco Cavallone, che li traduce per la rivista Linus, diretta dallo scrittore e giornalista Oreste del Buono, cui va il merito di aver reso popolari in Italia i personaggi immaginari di Schulz. 

In quel periodo, la notte di “dolcetto o scherzetto” non la conosce nessuno. Meglio, quindi, un ortaggio più mediterraneo e succoso, e pazienza se il cocomero ricorda l’estate. La sua traduzione funziona così bene che nessuno si azzarderà più a correggerla, e nel 1993 la regista romana Francesca Archibugi la prenderà a prestito come titolo di un delicato film sui disturbi psichici dei bambini. “Il Grande Cocomero”, appunto.

Ed eccolo, l’ingenuo ma saggio Linus van Pelt, il credulone che cita le Sacre Scritture: da 63 anni intento a presidiare, ogni notte di Halloween, il suo orto di zucche. Prima o poi – ne è certo – il Grande Cocomero passerà anche da lì. E, sebbene immancabilmente deluso, la sua fede non vacilla mai. 

«Io credo che il Grande Cocomero sorgerà nella notte di Halloween e volerà nel cielo con il suo sacco pieno di giochi per ogni bambino del mondo» dice a quella bisbetica della sorella maggiore Lucy. Che lo prende in giro riportando a Charlie Brown la «dichiarazione di scemenza» di suo fratello. «Dichiarazione di FEDE!!» le urla contro Linus, assicurandole che il Grande Cocomero è già stato avvistato sopra alcuni campi degli Stati Uniti.

L’unica a dargli retta è Piperita Patty, perché la sua storia è «talmente stupida e impossibile» che potrebbe essere vera. Anche Sally Brown, la sua innamorata, ogni tanto gli fa compagnia nel campo di zucche. E persino Snoopy, per quanto non ci creda granché. A oggi, The Great Pumpkin non si è mai fatta vedere, ma anche quest’anno Linus sarà lì ad aspettarla.

Dopo tanta incrollabile attesa, visto mai che il 2022 sia la volta buona?

Viaggio alle origini della Botanica: barbari, filosofi e santi.

Viaggio alle origini della Botanica: barbari, filosofi e santi.

Questo articolo fa parte del numero 17 di Web Garden: Il Giardino dei Semplici

Nei secoli bui del Medioevo, quando l’unico riparo dalle orde dei Barbari che scendevano da Nord erano le mura di un castello o di un monastero, la Storia disegnava una nuova fisionomia dell’Europa.

L’architettura, seguendo le leggi della sopravvivenza, confinava la quotidianità tra le cinta dei nuovi insediamenti. Tutto era chiuso e sicuro: nascita, morte, preghiere, artigianato e studi, svaghi e mercati, allevamento, orti, campi e frutteti. Nel mondo la Natura si riappropriava dei suoi spazi. Le terre che erano state bonificate e coltivate fino alla caduta dell’Impero romano tornavano al proprio stato originario.

Fuori dilagavano i boschi. Dentro, ordinato come una liturgia, nasceva il giardino monastico.

Benché coltivato all’interno dei centri religiosi medievali, il Giardino dei Semplici non indicava alcuna virtù cristiana.

Era un orto destinato a piante ed erbe officinali: Simplicis Medicinae e Simplicis Herbae, medicamenti preparati con una sola pianta, a differenza dei Composita, i rimedi misti, dove gli ingredienti erano mescolati dai monaci con sapienza e qualche azzardo. Poco più in là, nello stesso spazio recintato del monastero (Hortus Conclusus), crescevano ortaggi.

Già nel mondo antico la botanica era una disciplina straordinariamente importante. Plutarco (I-II secolo d.C.), il prolifico biografo greco di cui gli ex studenti ricordano con vaghezza le Vite Parallele, attestava la presenza di un giardino di piante medicinali e velenose nell’Asia Minore del III secolo a.C. voluto da Attalo, re di Pergamo.

Intanto Teofrasto (IV-III secolo a.C.), discepolo di Aristotele, scriveva due corposi trattati sulle piante, classificandone 455 specie e passando alla storia come “il padre della botanica”. Il greco Dioscoride (I secolo d.C.) si concentrava Sulle erbe mediche, testo sacro della farmacopea antica, utilizzato fino al XVII secolo quando fu scavalcato dalla nascita della medicina moderna.

Orto Botanico di Pisa

Nel frattempo, in Italia, Plinio il Vecchio (I secolo d.C.) dedicava sedici libri della sua mastodontica Naturalis historia a erbe, coltivazioni e medicamenti.

Poi calarono gli Unni, e con essi un’altra ventina di tribù germaniche. Roma cadde, l’Impero si disgregò, si instaurarono i regni romano-barbarici. Iniziò il Medioevo. In quei centri di cultura e salvaguardia della memoria che furono abbazie, monasteri e conventi, la giornata – fitta di impegni – era organizzata con meticolosità. Grazie a questa disciplina Ildegarda di Bingen (1098-1179) poté essere monaca, musicista, badessa, artista, teologa, compositrice, poetessa e diventare infine Santa, ma anche passare alla storia come una botanica formidabile.

Nel suo Liber Simplicis Medicinae sono raccolte oltre 300 specie vegetali da usare come farmaci “semplici”. Per la ritenzione idrica e le infiammazioni renali c’era il levistico (Levisticum officinale); contro i vermi parassiti il tanaceto (Tanacetum vulgare), ottimo anche per la gotta e i reumatismi. Le malattie infettive dell’apparato respiratorio erano curate con la santoreggia (Satureja L.), il diabete con il cumino (Cuminum cyminum). Ogni disturbo aveva la sua pianta, e se è vero che molte cure erano palliative, se non talvolta dannose, è anche vero che oggi la scienza ha confermato l’utilità di certi antichi rimedi.

Intanto il lungo millennio del Medioevo avanzava verso il Rinascimento. Nei Giardini dei Semplici si affacciavano altre specie, spesso non medicinali. Gli orti dei monaci si spostavano in quei nuovi centri della cultura e del sapere che erano le università, dove le piante erano coltivate a scopo didattico e scientifico, da professori e studenti non sempre interessati a indagarne le proprietà officinali.

Fuori le mura dei conventi, nel 1543 Cosimo I de’ Medici fondava il primo orto universitario al mondo, quello di Pisa (la cui posizione attuale risale però al 1591, ndr). Due anni dopo (1545), l’ateneo di Padova inaugurava quello che è a tutt’oggi il più antico orto botanico ancora nella sua collocazione originaria. Nello stesso anno nasceva quello, maestoso, di Firenze (1545). La botanica stava diventando una scienza autonoma, si distaccava dalla Medicina, e dal Giardino dei Semplici germogliava semplicemente il giardino.

Api in alta quota

Api in alta quota

Questo articolo fa parte del numero 16 di Web Garden: Il linguaggio della Natura: le api.

Tra le 20mila specie di api che ronzano sulla Terra, la più diffusa si è formata sopravvivendo alle glaciazioni. Si chiama Apis mellifera ligustica, meglio conosciuta come “ape italiana”: quella che vediamo in primavera e in estate mentre passa di fiore in fiore per catturare nettare e polline. Nonostante questa immagine bucolica di petali, pistilli e prati colorati, alle api il caldo piace pochissimo. Lo sanno bene gli apicoltori, che in estate spostano le arnie in zone riparate dal sole, mentre le api ventilatrici si danno un gran daffare sbattendo freneticamente le ali – due paia ciascuna – per rinfrescare l’alveare. 

A differenza di quanto credono i più, le api italiane stanno benissimo nelle regioni fredde e nelle zone montane. In inverno, quando le arnie sono coperte di neve, gli alveari respirano perché la neve è permeabile: all’interno non si forma un eccesso di anidride carbonica né di umidità. Basta che le famiglie siano forti e abbiano una scorta sufficiente di mieli e sciroppi. 

Un vecchio manuale americano (L’ape e l’arnia; 1921) mostrava immagini di un esperimento estremo: famiglie di api sopravvissute in piena salute a un inverno in cui le temperature erano arrivate a -30 gradi e il vento a 27 chilometri l’ora. E, nel suo Bee Behavior (1980), il celebre apicoltore statunitense Stephen Taber (1924-2008) spiegava le tecniche di conduzione degli alveari dalla Svezia al Canada, garantendo la possibilità di fare apicoltura produttiva anche dove il clima è freddo e la stagione del raccolto breve. 

All’inizio degli Anni Duemila, l’apicoltore finlandese Pekka Tuomanen riusciva a produrre in soli 2 mesi tra gli 80 e i 100 kg per alveare. Un record di maestria: e tutto con l’ape italiana.

Benché nell’ultima grande glaciazione le pianure non esistessero, spesso chi vive di apicoltura preferisce le regioni pianeggianti. È una condizione climatica che allontana l’Apis mellifera ligustica dal suo habitat naturale, ignorandone la millenaria memoria generica. Come direbbe Nanni Moretti, «continuiamo così, facciamoci del male»: perché – scrive Gabriele Milli nel visitatissimo blog apicolturaonline.it – andando avanti con questo sistema «si impoverisce irrimediabilmente l’Apis mellifera ligustica di una caratteristiche fondamentale: la sua estrema adattabilità». 

Slow Food, che di biodiversità ne capisce, nel 2012 ha avviato il Presidio dell’ape nativa della Sierra Norte di Puebla (Messico). Qui, a un’altitudine media di 1.825 metri, vive una razza speciale di ape senza pungiglione, che gli indigeni chiamano Pisilnekmej (nome scientifico: Scaptotrigona Mexicana), allevata in arnie composte da due vasi di terracotta da cui si ricava un miele speziato e piccante al naso, con note di agrumi in bocca, usato come alimento o come medicinale. 

Più vicino a noi, se Germania e Austria hanno una lunga tradizione di mieli di montagna, l’Italia non è da meno. Gli apiari in quota sono numerosi sugli Appennini del Centro-Nord (700-1.000 metri), sulle Prealpi Lombarde, dove si produce un ottimo miele d’acacia (già di per sé piuttosto redditizio), in Trentino e in Alto Adige, dove il miele è superlativo: quello sudtirolese di Imkerei Hieslerhof, ad Avelengo (tra i 1.290 e i 1.600 metri in provincia di Bolzano), nel 2016 è stato premiato con l’oro dall’Associazione apicoltori. 

Tra i migliori prodotti italiani, selezionati dal 1981 dall’Osservatorio Nazionale Miele attraverso il Concorso Tre Gocce d’Oro, ci sono il Millefiori di Alta Montagna delle Alpi (vallata dolomitica) e il Miele di rododendro, prodotto in Piemonte nei pascoli di alta montagna. Certo, occorre duro lavoro. Lo stesso svolto delle api bottinatrici, che ronzano nei prati dall’alba al tramonto: appena tre secondi per ogni fiore e poi via, subito a impollinarne altro e a prelevarne il nettare dal fondo del calice – il nettario – arrivando a visitare 2mila corolle al giorno. E ricominciare daccapo la mattina dopo. 

Stella Boglione, una contadina in riva al mare

Stella Boglione, una contadina in riva al mare

Questo articolo fa parte del numero 15 di Web Garden: Il linguaggio della Natura: le api.

Quando Stella e Marco Boglione decidono di mettere su famiglia è l’inizio del nuovo millennio, «il 1999 o giù di lì ». Il loro desiderio è una casa nel verde, magari sulla collina torinese, ma niente da fare. BasicNet, il gruppo industriale che Marco Boglione ha fondato appena quattro anni prima, ha bisogno del suo capitano. Il lavoro chiama.

Meglio vivere nella Foresteria sopra gli uffici e trasformare il tetto in un giardino. Stella, un pollice che più verde non si può e una tenacia da kamikaze (anche se è di origine cinese), realizza un primo orto urbano. In Italia non è ancora diffusa la moda green e, in Svezia, Greta porta ancora il pannolone. In tempi non sospetti, quando l’agricoltura domestica non è mainstream, Stella è una pioniera. Alle sei di mattina è avvistata sul roof garden con tuta e stivali di gomma (a marchio Superga, ça va…) a sradicare erbacce e piantare sementi.

Con l’orto arriva il pollaio, perché per Marco Boglione «il vero lusso è un uovo fresco al cucchiaio ogni mattina», e con il pollaio generazioni di pulcini che diventano galline e covano altre uova. Nel 2018 le prime tre arnie, e quindi il miele, dopo gli esperimenti con gli insetti antagonisti – che Stella utilizza su piante, fiori e verdure per evitare qualunque forma di guerra chimica ai parassiti – e una curiosa battaglia domestica per la «liberazione dei bonsai», trasformati in piante di notevoli dimensioni dentro vasi altrettanto imponenti.

Poi, la svolta: i Boglione acquistano l’isola sarda di Culuccia e Stella inizia ad amministrare l’omonima azienda agricola. La passione si trasforma in impresa, «anche se – assicura lei – più che imprenditrice sono una lavoratrice agricola. Per la maggior parte del tempo faccio la contadina. Non delego: amo tutto ciò che mi permette di stare in contatto con la natura, anche se devo alzarmi all’alba. D’altronde, la terra si bagna prima del sorgere del sole, oppure dopo il tramonto».

Mentre la intervisto al cellulare sulla sua lovestory con le api, lei attacca il viva-voce «perché sto pulendo 50 chili di bacche di ginepro con cui facciamo il gin». Nell’azienda agricola Culuccia, oltre al miele millefiori e a quello di melata, si producono ostriche, spumante Metodo Champenois e Vermentino Docg, e anche il più tradizionale tra i liquori sardi: il Mirto Bastianino, «dal nome del nostro primo asinello, che è un po’ la mascotte dell’isola».

Nell’azienda azienda agricola Culuccia, Stella Boglione produce miele millefiori, miele di melata, gin, mirto, vermentino Docg, spumante Metodo Champenois e ostriche

Nel resto della giornata a Stella non mancano altri impegni, compresa la parte burocratica di questo lavoro, «un aspetto che detesto, anche se capisco sia necessario».

Intanto sull’isola di Culuccia, nota anche come Isola delle Vacche (che peraltro stanno ritornando, selvatiche, ricominciando a riprodursi dopo anni di estinzione, ndr), è nato un Osservatorio naturalistico e un piano di turismo ecosostenibile che va consolidandosi di stagione in stagione, perché «il progetto Culuccia è creare prodotti di altissima qualità nel rispetto della Natura, oltre a rivalorizzare quest’isola dal punto di vista agricolo e turistico».

Non è raro, d’estate, vedere Stella Boglione dietro il bancone del bar Macchiamala, sull’omonima spiaggia, nei panni di cuoca-cameriera-barista. Anche se il suo più evidente successo è un vermentino che nasce – letteralmente – dal mare.

Racconta Stella: «Dal 1923 al 1996 l’unico abitante dell’isola di Culuccia fu Angelo Sanna, conosciuto come “Zio Agnuleddu”, che venne a viverci dopo aver lasciato l’ufficio postale di Santa Teresa di Gallura. Solo come un eremita, senza acqua corrente né elettricità, con l’unica compagnia di un cane e una cavalla, allevava maiali, capretti e mucche».

Negli anni Cinquanta, “Zio Agnuleddu” piantò la Vigna della Puntata (sulla punta dell’isola, ndr) con vitigni autoctoni galluresi «che abbiamo ripreso tre anni fa». Nella prima vendemmia, il 1° settembre dell’anno scorso, sono stati raccolti poco più di 2mila chili «600 dei quali sono stati messi a riposare in mare, come facevano gli Antichi Greci». Poco dopo, con l’enologo Andrea Pala (Miglior Giovane Enologo italiano 2021, ndr) Stella ha prodotto il vermentino Donna Ma’, dal nome della figlia Maria, che ha già vinto diversi premi. E, contemporaneamente, il Donna Ste’, che ha subito meritato il Docg.

Questo è accaduto, in poco più di 20 anni, alla donna che da ragazza organizzava eventi per l’Ambrosetti, che da bambina «volevo fare l’agente segreto come Nikita» e che «se tornassi indietro forse farei Medicina». Tutto attraverso un processo «molto lento e inatteso, per quanto piacevole», perché «una delle fortune più grandi è trasformare una passione nel lavoro della vita».

BASTIANINO L’asino Bastianino, mascotte dell’isola sarda di Culuccia, che dà il nome al mirto prodotto da Stella Boglione