La botanica fantastica e i vegani nel Medioevo

La botanica fantastica e i vegani nel Medioevo

Questo articolo fa parte del numero 19 di Web Garden: La Botanica Fantastica

Nella sezione Beinecke dedicata ai codici rari, al numero d’inventario MS 408, la Biblioteca dell’Università di Yale custodisce «il libro più misterioso del mondo». Nessuno è ancora riuscito a decifrarlo, e a Yale i sapienti non mancano. Il Manoscritto Voynich – questo il suo nome – è il testo più celebre e oscuro di Botanica Fantastica, ma non l’unico.

Redatto su pergamena di vitello tra il 1404 e il 1438, ha acceso la fantasia di scrittori, filologi e complottisti, ed è stato protagonista in un episodio del fumetto italiano Martin Mystère (1982). Nessuna ipotesi o trama, però, ha mai sciolto l’enigma dei 113 disegni di piante sconosciute illustrate a colori nel codice, né delle loro descrizioni, annotate in un idioma che non appartiene ad alcun sistema alfabetico a oggi classificato. Ci sono radici e infiorescenze che, s’ipotizza, fossero materia ghiotta per gli alchimisti – mestiere molto in voga nel Medioevo – ma dove crescessero e a cosa servissero, chissà.

Come non bastassero le 60.065 specie di piante reali censite dalla Botanic Gardens and Plant Conservation, o le 391mila varietà calcolate nel mondo dai ricercatori britannici dei Royal Botanic Gardens, la tradizione delle piante immaginarie, mai catalogate in un vero erbario, è antica e corposa.

Nel 1330, nella relazione di un viaggio in Oriente, frate Odorico da Pordenone descrive una pianta che, al posto del fiore, genera un agnello. L’animale se ne sta lì, in punta allo stelo come uno stilita sulla colonna, attaccato a un cordone ombelicale flessibile che gli permette di chinare il muso a terra e nutrirsi d’erba. Si chiama Barometz e si trova già in Erodoto (442 a.C.), Theophrastus (306 a.C.) e Plinio il Vecchio (77 d.C), mentre nel Talmud compare con il nome di Jeduah. Pochi anni dopo, lo scrittore-viaggiatore John Mandeville ne conferma l’esistenza (1355) e se ne nutre con gusto perché «la carne sa di pesce e il sangue di miele».

L’Agnello vegetale di Tartaria – dal nome arcaico della regione dell’Asia dove se ne attestava la presenza – diventa così famoso che chiunque passi tra il Mar Caspio e gli Urali ne incontra uno: il diplomatico austriaco Sigismund von Herberstein (1549), il cartografo francese Guillaume Postel (1552), lo scienziato napoletano Giambattista Della Porta (1591), il poeta ugonotto Guillaume de Salluste Du Bartas (1578).   

La cultura occidentale risponde per le rime. Non sia mai che solo l’Oriente produca meraviglie. Nel 1188, l’ecclesiastico gallese Giraldus Cambrensis s’imbatte in un albero, tipico delle coste irlandesi, da cui germogliano anatre. Pochi anni dopo, le Bernacae o Anatre Vegetali d’Irlanda vengono descritte anche dal frate domenicano Vincent de Beauvais. Il mondo religioso è deliziato. Le Bernacae iniziano a spuntare ovunque: in quanto vegetali, si possono mangiare anche in Quaresima. Dirime la questione papa Innocenzo III, che nel 1215 stabilisce l’astinenza da ogni tipo di carne, di qualunque origine. E così sia. Ma le leggende sono dure a morire. Nel 1605 il botanico francese Claude Duret pubblica a Parigi la sua Histoire admirable des plantes et des herbes, classificando specie di alberi che partoriscono animali: le foglie caduche che toccano l’acqua diventano pesci; quelle che finiscono al suolo, uccelli marini.

La Botanica Fantastica sopravvive ai secoli e ai negazionisti. Nel 1981 l’artista romano Luigi Serafini pubblica il Codex Seraphinianus, composto – come il Manoscritto Voynich – in una lingua inventata. Per Italo Calvino è «l’enciclopedia di un visionario»: benché figlio di un agronomo e di una botanica, lo scrittore italiano è niente affatto scandalizzato dall’improbabile flora disegnata nel libro, né dalle piante con nomi indecifrabili e forme che sfidano il buonsenso della fisica.

Gli fa eco, nel 1976, il pittore statunitense Leo Lionni, che pubblica per Adelphi La botanica parallela, con 23 illustrazioni e 32 tavole fuori testo che descrivono piante fantastiche con il rigore di un trattato scientifico. Un esercizio di fantasia che riscopre l’appetitosa carne medievale del Barometz, garantita vegetale al 100 per cento.

Per la gioia di tutti i vegani.

Visita al Castello Cavour fra parco, tramonto e lumi di candela

Visita al Castello Cavour fra parco, tramonto e lumi di candela

C’è già l’aria frizzantina della sera quando i soci di Web Garden arrivano a Santena, a pochi chilometri da Torino. Qui, alle sette, la Fondazione Camillo Cavour apre i cancelli soltanto per noi, accolti all’ingresso niente-di-meno-che dal direttore Marco Fasano. Lui e Serena Rossi, instancabile braccio operativo (e fucina di idee) della Fondazione, hanno preparato per Web Garden una serata speciale.

Si inizia con una lunga passeggiata nel parco della tenuta, maestosa opera dell’architetto paesaggista prussiano Xavier Kurten, all’epoca direttore del parco di Racconigi, che nel 1830 dispone gli alberi, isolati o a gruppo, nella fascia attorno al prato centrale e lungo il perimetro esterno, per nascondere i muri di confine con folti boschetti, solo apparentemente spontanei. Nei 16 ettari di quello che, oggi, è uno straordinario parco all’inglese siamo accolti da platani, frassini, ippocastani, carpini, aceri e querce pluricentenarie.

La guida naturalistica che accompagna i soci di Web Garden ne illustra storia e curiosità; e così scopriamo che il nucleo originario risale ai primi del ‘700, quando fu edificato l’attuale castello, affacciato – al tempo – su un giardino organizzato in quattro parterre delimitati da siepi e bordure fiorite. Nella seconda metà del Settecento il giardino diventa prato, chiuso da filari di alberi disposti perpendicolarmente alla villa. Il resto è ancora spazio agricolo, perché a questo servivano le tenute di campagna della nobiltà piemontese. Poi l’intervento di Kurten trasforma ogni cosa: non più utilità e agricoltura, ma pace, ristoro e bellezza.

Il tramonto ci riaccompagna verso l’edificio principale, ma non ancora all’interno del Castello. Per una visita a lume di candela occorre il buio, e l’attesa è premiata da un light dinner preparato dal ristorante “Le Vecchie Credenze” dentro la Sala Diplomatica, impossibile da visitare altrimenti, con i suoi stucchi antichi, gli arredi e gli specchi. Lì, proprio accanto alla grande terrazza che, dall’alto, affaccia sul prato, si dà un’ultima occhiata al Parco, ma senza poterne cogliere i confini: un po’ per l’astuta sistemazione dei grandi alberi, un po’ perché la notte è iniziata. Sulle scale che, dalla terrazza, portano all’ingresso del Castello si accendono lumi e candele. È arrivata l’ora di immergerci nel passato, quando l’avvento dell’elettricità era lontano e la vita aderiva di più ai ritmi della natura.

Con curiosità e cautela si entra nel Castello. Qualcuno accende la torcia del telefonino: la storta è in agguato. Ma è una prudenza inutile. Le candele fanno il loro dovere e gli occhi si abituano all’oscurità, da cui – piano piano – emergono meraviglie. Ecco i saloni aulici del pianterreno, la sontuosa stanza da letto della marchesa Filippina de Sales, nonna paterna di Camillo Cavour, che riposava sotto un baldacchino di stoffe ricamate; la Sala delle Caccie, i salottini da cui spunta un preziosissimo tavolino del Piffetti; l’ancor più prezioso vaso di Sèvres, dono di Napoleone III a Camillo Cavour: memoria di quando l’Italia iniziò a unirsi con l’alleanza di Inglesi e Francesi.

Tra un “attenzione” e un “dove sei?”, il gruppo di Web Garden si immerge in un’epoca scomparsa; e non solo per la suggestiva visione di una certa, pur sabauda, sfarzosità. Salendo al mezzanino – allestito soltanto per Web Garden ed escluso dal normale percorso di visita – ecco la stanza della servitù e un appartamento più domestico e quotidiano. Non tutti i giorni dell’anno trascorrevano in uno scenario da “Downton Abbey”. Capitava di mangiare a una tavola più modesta, di dormire in un letto meno sontuoso, di ritrovarsi davanti a un caminetto per leggere a lume di candela o ricamare, chiacchierando di qualche sciocchezza o discutendo di conti e lavori da eseguire. Come qualunque famiglia, in ogni luogo e in ogni età.

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Quando la zucca dei Peanuts si trasformò in cocomero

Quando la zucca dei Peanuts si trasformò in cocomero

Questo articolo fa parte del numero 18 di Web Garden: C’era una volta…

Di Linus – quello originale, non il dj – tutti conoscono la coperta azzurra: quella security blanket da cui il piccolo e saggio amico di Charlie Brown non si separa dal 1° giugno 1954; un oggetto così celebre da essere diventato un modo di dire. 

Ognuno di noi ha la sua “coperta di Linus”. Da bambino può essere una bambola di pezza o un pelouche; da grande, un talismano o un rito privato che ci dà sicurezza. Ma c’è un’altra cosa di cui Linus van Pelt ha bisogno almeno quanto della sua coperta: è la fede incrollabile nel Grande Cocomero, entità sovrannaturale che ogni anno, ad Halloween, sceglie l’orto “più sincero” del mondo per portare doni a tutti i bambini della Terra. 

La verità è che il Grande Cocomero non è mai stato un cocomero, se non nelle edizioni italiane dei Peanuts. Si tratta di una zucca, anzi della Grande Zucca (The Great Pumpkin), il cui nome è citato per la prima volta negli Stati Uniti in una striscia del 26 ottobre 1959, quando in Italia di Halloween si sa più niente che poco. 

Per il geniale fumettista statunitense Charles M. Schulz, papà dei Peanuts, The Great Pumpkin è un altro modo per raccontare un pezzo di vita attraverso lo sguardo lucido e tagliente dei suoi bambini-grandi. 

Per i curatori italiani dei Peanuts, che il 20 febbraio 1961 pubblicano per la prima volta Schulz a pagina 7 di Paese Sera, è un grattacapo. Le parole americane root beer e marshmallow sono, per i lettori degli Anni Sessanta, nomi senza significato: così la prima – una bevanda frizzante tipica degli USA a base di estratti di radici – si trasforma in “orzata”; la seconda – il morbido cilindretto di zucchero bianco-rosa oggi diffusissimo, declinazione commerciale di un antico dolce ricavato dalla pianta Althaea officinalis – diventa “toffoletta”. 

All’inizio, persino Charlie Brown è orfano del proprio nome. I traduttori lo ribattezzano Pierino, quasi quel bambino dalla testa rotonda che dialoga con il suo cane-filosofo fosse roba da niente, invece che l’incarnazione della commedia umana: emblema del perdente che, ostinatamente, resta fedele a se stesso.

La più eclatante libertà che si accollano i traduttori è proprio il Grande Cocomero. A scegliere il nome è Bruno Cavallone, che nel 1963 cura per conto di Milano Libri i primi quattro volumi italiani dei Peanuts. Secondo il suo raffinato palato, Grande Zucca suona male. Non è abbastanza suggestivo, e poi in Italia vige ancora Babbo Natale: occorre un nome maschile che possa evocarlo ai lettori.  Nel 1965 i Peanuts passano al fratello, Franco Cavallone, che li traduce per la rivista Linus, diretta dallo scrittore e giornalista Oreste del Buono, cui va il merito di aver reso popolari in Italia i personaggi immaginari di Schulz. 

In quel periodo, la notte di “dolcetto o scherzetto” non la conosce nessuno. Meglio, quindi, un ortaggio più mediterraneo e succoso, e pazienza se il cocomero ricorda l’estate. La sua traduzione funziona così bene che nessuno si azzarderà più a correggerla, e nel 1993 la regista romana Francesca Archibugi la prenderà a prestito come titolo di un delicato film sui disturbi psichici dei bambini. “Il Grande Cocomero”, appunto.

Ed eccolo, l’ingenuo ma saggio Linus van Pelt, il credulone che cita le Sacre Scritture: da 63 anni intento a presidiare, ogni notte di Halloween, il suo orto di zucche. Prima o poi – ne è certo – il Grande Cocomero passerà anche da lì. E, sebbene immancabilmente deluso, la sua fede non vacilla mai. 

«Io credo che il Grande Cocomero sorgerà nella notte di Halloween e volerà nel cielo con il suo sacco pieno di giochi per ogni bambino del mondo» dice a quella bisbetica della sorella maggiore Lucy. Che lo prende in giro riportando a Charlie Brown la «dichiarazione di scemenza» di suo fratello. «Dichiarazione di FEDE!!» le urla contro Linus, assicurandole che il Grande Cocomero è già stato avvistato sopra alcuni campi degli Stati Uniti.

L’unica a dargli retta è Piperita Patty, perché la sua storia è «talmente stupida e impossibile» che potrebbe essere vera. Anche Sally Brown, la sua innamorata, ogni tanto gli fa compagnia nel campo di zucche. E persino Snoopy, per quanto non ci creda granché. A oggi, The Great Pumpkin non si è mai fatta vedere, ma anche quest’anno Linus sarà lì ad aspettarla.

Dopo tanta incrollabile attesa, visto mai che il 2022 sia la volta buona?

Viaggio alle origini della Botanica: barbari, filosofi e santi.

Viaggio alle origini della Botanica: barbari, filosofi e santi.

Questo articolo fa parte del numero 17 di Web Garden: Il Giardino dei Semplici

Nei secoli bui del Medioevo, quando l’unico riparo dalle orde dei Barbari che scendevano da Nord erano le mura di un castello o di un monastero, la Storia disegnava una nuova fisionomia dell’Europa.

L’architettura, seguendo le leggi della sopravvivenza, confinava la quotidianità tra le cinta dei nuovi insediamenti. Tutto era chiuso e sicuro: nascita, morte, preghiere, artigianato e studi, svaghi e mercati, allevamento, orti, campi e frutteti. Nel mondo la Natura si riappropriava dei suoi spazi. Le terre che erano state bonificate e coltivate fino alla caduta dell’Impero romano tornavano al proprio stato originario.

Fuori dilagavano i boschi. Dentro, ordinato come una liturgia, nasceva il giardino monastico.

Benché coltivato all’interno dei centri religiosi medievali, il Giardino dei Semplici non indicava alcuna virtù cristiana.

Era un orto destinato a piante ed erbe officinali: Simplicis Medicinae e Simplicis Herbae, medicamenti preparati con una sola pianta, a differenza dei Composita, i rimedi misti, dove gli ingredienti erano mescolati dai monaci con sapienza e qualche azzardo. Poco più in là, nello stesso spazio recintato del monastero (Hortus Conclusus), crescevano ortaggi.

Già nel mondo antico la botanica era una disciplina straordinariamente importante. Plutarco (I-II secolo d.C.), il prolifico biografo greco di cui gli ex studenti ricordano con vaghezza le Vite Parallele, attestava la presenza di un giardino di piante medicinali e velenose nell’Asia Minore del III secolo a.C. voluto da Attalo, re di Pergamo.

Intanto Teofrasto (IV-III secolo a.C.), discepolo di Aristotele, scriveva due corposi trattati sulle piante, classificandone 455 specie e passando alla storia come “il padre della botanica”. Il greco Dioscoride (I secolo d.C.) si concentrava Sulle erbe mediche, testo sacro della farmacopea antica, utilizzato fino al XVII secolo quando fu scavalcato dalla nascita della medicina moderna.

Orto Botanico di Pisa

Nel frattempo, in Italia, Plinio il Vecchio (I secolo d.C.) dedicava sedici libri della sua mastodontica Naturalis historia a erbe, coltivazioni e medicamenti.

Poi calarono gli Unni, e con essi un’altra ventina di tribù germaniche. Roma cadde, l’Impero si disgregò, si instaurarono i regni romano-barbarici. Iniziò il Medioevo. In quei centri di cultura e salvaguardia della memoria che furono abbazie, monasteri e conventi, la giornata – fitta di impegni – era organizzata con meticolosità. Grazie a questa disciplina Ildegarda di Bingen (1098-1179) poté essere monaca, musicista, badessa, artista, teologa, compositrice, poetessa e diventare infine Santa, ma anche passare alla storia come una botanica formidabile.

Nel suo Liber Simplicis Medicinae sono raccolte oltre 300 specie vegetali da usare come farmaci “semplici”. Per la ritenzione idrica e le infiammazioni renali c’era il levistico (Levisticum officinale); contro i vermi parassiti il tanaceto (Tanacetum vulgare), ottimo anche per la gotta e i reumatismi. Le malattie infettive dell’apparato respiratorio erano curate con la santoreggia (Satureja L.), il diabete con il cumino (Cuminum cyminum). Ogni disturbo aveva la sua pianta, e se è vero che molte cure erano palliative, se non talvolta dannose, è anche vero che oggi la scienza ha confermato l’utilità di certi antichi rimedi.

Intanto il lungo millennio del Medioevo avanzava verso il Rinascimento. Nei Giardini dei Semplici si affacciavano altre specie, spesso non medicinali. Gli orti dei monaci si spostavano in quei nuovi centri della cultura e del sapere che erano le università, dove le piante erano coltivate a scopo didattico e scientifico, da professori e studenti non sempre interessati a indagarne le proprietà officinali.

Fuori le mura dei conventi, nel 1543 Cosimo I de’ Medici fondava il primo orto universitario al mondo, quello di Pisa (la cui posizione attuale risale però al 1591, ndr). Due anni dopo (1545), l’ateneo di Padova inaugurava quello che è a tutt’oggi il più antico orto botanico ancora nella sua collocazione originaria. Nello stesso anno nasceva quello, maestoso, di Firenze (1545). La botanica stava diventando una scienza autonoma, si distaccava dalla Medicina, e dal Giardino dei Semplici germogliava semplicemente il giardino.

Api in alta quota

Api in alta quota

Questo articolo fa parte del numero 16 di Web Garden: Il linguaggio della Natura: le api.

Tra le 20mila specie di api che ronzano sulla Terra, la più diffusa si è formata sopravvivendo alle glaciazioni. Si chiama Apis mellifera ligustica, meglio conosciuta come “ape italiana”: quella che vediamo in primavera e in estate mentre passa di fiore in fiore per catturare nettare e polline. Nonostante questa immagine bucolica di petali, pistilli e prati colorati, alle api il caldo piace pochissimo. Lo sanno bene gli apicoltori, che in estate spostano le arnie in zone riparate dal sole, mentre le api ventilatrici si danno un gran daffare sbattendo freneticamente le ali – due paia ciascuna – per rinfrescare l’alveare. 

A differenza di quanto credono i più, le api italiane stanno benissimo nelle regioni fredde e nelle zone montane. In inverno, quando le arnie sono coperte di neve, gli alveari respirano perché la neve è permeabile: all’interno non si forma un eccesso di anidride carbonica né di umidità. Basta che le famiglie siano forti e abbiano una scorta sufficiente di mieli e sciroppi. 

Un vecchio manuale americano (L’ape e l’arnia; 1921) mostrava immagini di un esperimento estremo: famiglie di api sopravvissute in piena salute a un inverno in cui le temperature erano arrivate a -30 gradi e il vento a 27 chilometri l’ora. E, nel suo Bee Behavior (1980), il celebre apicoltore statunitense Stephen Taber (1924-2008) spiegava le tecniche di conduzione degli alveari dalla Svezia al Canada, garantendo la possibilità di fare apicoltura produttiva anche dove il clima è freddo e la stagione del raccolto breve. 

All’inizio degli Anni Duemila, l’apicoltore finlandese Pekka Tuomanen riusciva a produrre in soli 2 mesi tra gli 80 e i 100 kg per alveare. Un record di maestria: e tutto con l’ape italiana.

Benché nell’ultima grande glaciazione le pianure non esistessero, spesso chi vive di apicoltura preferisce le regioni pianeggianti. È una condizione climatica che allontana l’Apis mellifera ligustica dal suo habitat naturale, ignorandone la millenaria memoria generica. Come direbbe Nanni Moretti, «continuiamo così, facciamoci del male»: perché – scrive Gabriele Milli nel visitatissimo blog apicolturaonline.it – andando avanti con questo sistema «si impoverisce irrimediabilmente l’Apis mellifera ligustica di una caratteristiche fondamentale: la sua estrema adattabilità». 

Slow Food, che di biodiversità ne capisce, nel 2012 ha avviato il Presidio dell’ape nativa della Sierra Norte di Puebla (Messico). Qui, a un’altitudine media di 1.825 metri, vive una razza speciale di ape senza pungiglione, che gli indigeni chiamano Pisilnekmej (nome scientifico: Scaptotrigona Mexicana), allevata in arnie composte da due vasi di terracotta da cui si ricava un miele speziato e piccante al naso, con note di agrumi in bocca, usato come alimento o come medicinale. 

Più vicino a noi, se Germania e Austria hanno una lunga tradizione di mieli di montagna, l’Italia non è da meno. Gli apiari in quota sono numerosi sugli Appennini del Centro-Nord (700-1.000 metri), sulle Prealpi Lombarde, dove si produce un ottimo miele d’acacia (già di per sé piuttosto redditizio), in Trentino e in Alto Adige, dove il miele è superlativo: quello sudtirolese di Imkerei Hieslerhof, ad Avelengo (tra i 1.290 e i 1.600 metri in provincia di Bolzano), nel 2016 è stato premiato con l’oro dall’Associazione apicoltori. 

Tra i migliori prodotti italiani, selezionati dal 1981 dall’Osservatorio Nazionale Miele attraverso il Concorso Tre Gocce d’Oro, ci sono il Millefiori di Alta Montagna delle Alpi (vallata dolomitica) e il Miele di rododendro, prodotto in Piemonte nei pascoli di alta montagna. Certo, occorre duro lavoro. Lo stesso svolto delle api bottinatrici, che ronzano nei prati dall’alba al tramonto: appena tre secondi per ogni fiore e poi via, subito a impollinarne altro e a prelevarne il nettare dal fondo del calice – il nettario – arrivando a visitare 2mila corolle al giorno. E ricominciare daccapo la mattina dopo.